Divina Commedia, Inferno, Canto V – Dante Alighieri (Analisi del Testo)

Inferno canto V: POESIA e PARAFRASI

  • Luogo: cerchio II
  • Custode: Minosse, giudice.
  • Peccatori: lussuriosi.
  • Pena: bufera infernale.

ANALISI:
E’ il primo canto dell’Inferno vero e proprio; il primo incontro di Dante con singole figure di dannati. Questo cerchio ospita infatti i lussuriosi, la cui pena consiste nell’essere eternamente trascinati e sbattuti da una violenta tempesta di vento (secondo la regola del contrappasso, evidente corrispettivo della tempesta di passione da cui si lasciarono travolgere). Fin qui, Dante aveva visto la massa sgomentante di umanità perduta che si accalcava alla riva d’Acheronte; la schiera, volutamente lasciata nell’anonimato, degli ignavi e gli spiriti magni del Limbo, la cui struggente malinconia niente ha a che vedere con la punizione vera e propria di peccati specifici, in cui consiste propriamente l’inferno. È questo, di conseguenza, un canto che vede un Dante alle prime armi, particolarmente vulnerabile e impressionabile dallo spettacolo delle pene infernali; specie davanti a un peccato come quello di lussuria, che coinvolge una sfera tanto comune e delicata della vita di ognuno, quella sessuale e amorosa; e specie davanti a due lussuriosi come Paolo e Francesca, di fronte alla cui evidente nobiltà e gentilezza d’animo è arduo mantenere un severo distacco. È un canto dunque cruciale, non soltanto per il rilievo in sé e per sé dell’incontro con Paolo e Francesca (forse l’episodio più famoso di tutta la Commedia), ma per il motivo che qui si imposta l’atteggiamento morale, psicologico e intellettuale del personaggio di Dante dentro il suo racconto, e quindi si stabiliscono alcune delle coordinate strutturali portanti del poema. Il problema è questo: come si reagisce di fronte allo spettacolo del male? Come ci si rapporta con i malvagi? E questi malvagi (dannati, peccatori) di che pasta sono fatti? Ci assomigliano? Quanto ci assomigliano?

Ecco dunque il secondo cerchio, che poi, in realtà, come si è detto, è il primo in cui viene punito un peccato specifico, e dunque potrebbe essere considerato il primo vero e proprio cerchio infernale. Però Dante sembra volere sottolineare la continuità, più che la frattura, tra il primo cerchio – il Limbo – e questo secondo, di minore circonferenza del primo, dove si soffre di più; il che è singolare, visto che le anime del Limbo erano condannate soltanto al desiderio insoddisfatto della grazia divina, senza essere sottoposte a nessuna punizione. Ma forse siamo noi a leggere troppo superficialmente la pena degli spiriti magni del Limbo, e a sottovalutare la profondità – tutta interiore e intellettuale – della loro sofferenza. Dante, invece, sa bene che l’Inferno, in quanto esclusione e lontananza dall’amore di Dio, comincia proprio con loro.

Certo, la presenza di Minosse all’entrata del secondo cerchio marca un forte distacco da quanto abbiamo visto finora: è qui che comincia l’amministrazione “giuridica” dei delitti e delle pene dei dannati. Minosse si accampa potente all’ingresso del cerchio e invade della sua presenza tutto il v. 4: piantato nella sua postazione (Stavvi), spaventoso (orribilmente) e ringhiante, minaccioso come una bestia feroce (ringhia). Dante eredita Minosse, come tutti gli altri guardiani dei cerchi infernali, dalla mitologia classica, ma li sottopone a metamorfosi paurose. Così anche Minosse, l’antico e severo giudice di Creta, è qui trasformato in una creatura mostruosa, dotata di una coda abbastanza lunga da poterla avvolgere intorno al corpo, una o addirittura più volte, per segnalare il cerchio infernale a cui le anime sono destinate. Appunto la coda, appendice repellente del mostro in cui è stato trasformato Minosse, gli serve per farsi interprete della volontà divina; è l’atto conclusivo dell’esame a cui questo giudice impeccabile, conoscitor de le peccata, sottopone ciascuna anima che gli viene davanti. Perché il mostro è, in realtà, un professionista raffinato e un interprete impeccabile del codice penale che regola l’Inferno. Ma questo è, propriamente, il “comico” dantesco: questa coincidenza di solennità e di crudo realismo, per cui la volontà divina può essere tradotta da un gesto di corporale brutalità (la coda attorcigliata di un essere mostruoso).
Le anime, di fronte a Minosse, non hanno scelta. Ognuna di loro confessa tutti i suoi peccati, Minosse individua il luogo della pena, esse ascoltano la sentenza e vengono precipitate giù al loro destino. Avanti un altro. Ci possiamo chiedere: era proprio necessario questo rituale? Era indispensabile che le anime confessassero apertamente i loro peccati? Dio non li conosce già? Non sono esse anime già giudicate e assegnate alla loro pena? In effetti, il racconto sembra voler sottoporre le anime dannate non soltanto a una sorta di udienza giudiziaria, con Minosse in funzione di magistrato, ma a una disperata parodia del sacramento della confessione, con Minosse in veste di officiante. Adesso le anime confessano i loro peccati, ma troppo tardi: questo è un rito di dannazione, non di salvezza. L’officiante non ha il compito di assolvere, ma di condannare. I peccatori riconoscono le loro colpe, ma non sono più in grado di pentirsene. Grottesca parodia di un rito salvifico, la confessione delle anime di fronte a Minosse non fa che mimare ciò che avrebbe potuto essere e non è stato, esasperando così il senso di ineluttabilità, di destino irreversibile, che pesa su tutto l’Inferno dantesco.

Minosse non è capace solo di ringhiare e di attorcigliare la coda. Minosse parla anche: con un tono insieme mellifluo e minaccioso egli insinua a Dante che forse non è proprio tanto saggio avventurarsi così all’inferno, soltanto perché l’entrata è spalancata; e poi, è sicuro di potersi fidare di tale guida? Virgilio, direttamente chiamato in causa, non si attarda in lunghi discorsi: ritira fuori la formula già usata con Caronte: vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole, come se non valesse la pena di discutere con creature che, nonostante la loro apparenza temibile, non sono che funzionari di grado inferiore, giustamente attaccati al regolamento, ma ignari che Dante compie il suo viaggio protetto da una raccomandazione che viene dall’alto.

Dante non dice come e se Minosse reagisce alla secca risposta di Virgilio; forse con un ringhio d’impotenza. Sta di fatto che ci troviamo di botto di là dall’entrata del cerchio, a contatto, per la prima volta, con una pena infernale. All’inizio Dante non vede nulla: buio assoluto. Ma rimane stordito, invece, dalla colonna sonora del luogo: note di dolore, pianto e, su tutto, l’assordante rombare di una bufera incessante. La dannazione si concreta in paesaggio fisico, in rumore, in esperienza dei sensi; così avverrà sempre in questa prima cantica. Qui Dante si trova sopraffatto dall’emozione della pena prima ancora di sapere chi siano i peccatori lì puniti. Per ora sa soltanto che è la bufera stessa la loro punizione, la bufera che li percuote e li strapazza vorticando intorno al cerchio, e soprattutto quando li fa passare davanti all’ingresso, dove il ricordo della loro entrata nell’eternità della dannazione li esaspera ancora di più. Ma attenzione: nel loro lamento disperato i dannati bestemmiano Dio, segno che la pena stessa è tanto eterna quanto sterile, perché non è in grado di mutare la loro condizione; morti senza pentirsi, come nemici di Dio, essi possono soltanto maledirlo dall’abisso della loro impotenza.

Non ci vuole molto a Dante per capire che questa è la pena riservata ai peccatori carnali, ai lussuriosi, che andarono dietro al loro appetito sensuale invece che lasciarsi guidare dalla ragione. Il contrappasso è evidente: come in vita si lasciarono trascinare dalla tempesta della passione, così qui allìnferno essi sono trascinati da una tempesta vera; la facile metafora che si usa per indicare la violenza irresistibile dell’attrazione amorosa si è materializzata in una punizione infernale. Adesso, come se la vista di Dante si fosse un po’ abituata all’oscurità del luogo, egli riesce a distinguerli: gli fanno l’effetto di una schiera di volatili, soffiati in alto dall’uragano contro l’aria nera del cerchio; di stornelli, per l’esattezza, migranti nell’aria fredda dell’inverno. Questa notazione stagionale è una prima fitta di malinconia che attraversa il canto e che subito diventa più profonda quando Dante individua nel largo stormo dei lussuriosi un gruppo in particolare: una fila di peccatori che sembra disegnare una riga in mezzo agli altri, simile stavolta non più a stornelli ma a gru; e come le gru lanciano il loro grido lamentoso, diverso da quello degli altri uccelli, così questi peccatori sembrano distinguersi per i loro guai, i loro stridi acuti, dal lamento dei loro compagni di pena.

prot_216Chi sono questi peccatori-gru, dal grido lamentoso così caratteristico? La curiosità di Dante è presto soddisfatta da Virgilio: sono i morti, anzi, gli uccisi per amore. Virgilio, a dire la verità, spiega questa loro caratteristica, che li accomuna e li distingue dagli altri lussuriosi, in coda alla sua presentazione; prima egli sciorina, di fronte agli occhi affascinati di Dante, un vero e proprio albo d’onore dei grandi protagonisti di storie d’amore e morte della poesia antica e moderna. Sono nomi prestigiosi, consacrati da una fama letteraria leggendaria: regine orientali di favolosa lascivia, come Semiramide che, per accoppiarsi col proprio figlio senza pubbliche censure, legalizzò l’incesto, o Cleopatra, la donna fatale che affascinò Cesare e Marcantonio; eroine suicide per amore, come Didone; donne di funesta bellezza come Elena di Troia; né mancano eroi maschili vittime di Eros come Achille, che si lasciò ingenuamente tradire per amore di Polissena, o Paride, il seduttore di Elena, o Tristano, l’amante di Isotta, protagonista di uno dei racconti più celebri della Tavola Rotonda. Sono tutti personaggi che Dante conosce assai bene. Sono, infatti, i protagonisti di una meravigliosa tradizione letteraria: personaggi amati dal poeta sulle carte della poesia, ma che adesso gli balzano davanti agli occhi, vivi e veri… e dannati. È un momento delicatissimo di questo canto, che ne determina tutto il significato. E infatti si può ben pensare che Dante considerasse tutti questi personaggi come personaggi storici prima che di invenzione letteraria; anche il “personaggio-capolavoro” del suo maestro, quella Didone indimenticabile che riempie di sé e della sua infelice passione i primi canti dell’Eneide, si può ben credere che fosse veramente vissuta prima di entrare nel mondo della poesia. Ma per Dante questi sono personaggi che hanno nutrito soprattutto la sua fantasia, le sue letture, la sua stessa educazione poetica: arduo, adesso, considerarli come persone vere e storiche, passibili di colpa e di pena, soggette alla morale come tutti. Uscire dal mondo della fantasia poetica, accettare la durezza e la severità della legge morale: questa è la prima prova a cui Dante viene sottoposto in questo canto. Ed è per questo che, di fronte alla sfilata di tali personaggi, egli rimane sopraffatto da pietà e smarrimento.

«Le donne antiche e i cavalieri»: così Dante definisce i personaggi che gli sono stati additati da Virgilio. Splendida definizione, e molto fortunata, che arriverà a influenzare perfino l’inizio dell’Orlando furioso di Ariosto: «Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori». In particolare, le donne antiche alludono alle eroine della tradizione classica; i cavalieri sembrano piuttosto riferirsi a una tradizione più recente, medievale: magari ai protagonisti di quelle «Arthuri regis ambages pulcerrime» (“Le meravigliose avventure di re Artù”) che Dante cita ammirato nel suo De vulgari eloquentia (anche se probabilmente egli avrebbe chiamato cavalieri, secondo l’uso attualizzante della sua cultura, gli stessi eroi dell’antichità). Le «donne antiche e i cavalieri» sono dunque la sintesi di tutta una letteratura di amore e morte, di storie tragiche di passioni immortali: possibile che siano finiti così? La pietà e lo smarrimento di Dante derivano dunque innanzitutto dal sentirsi messo, per così dire, con le spalle al muro: i suoi eroi e le sue eroine non erano soltanto personaggi di carta, ma individui reali; i loro comportamenti non erano soltanto belle finzioni poetiche, ma atti morali sottoposti a giudizio. Insomma, non ci si può abbandonare alla poesia e alla letteratura come a una innocente evasione, moralmente irresponsabile; anche i valori della poesia e della letteratura devono essere sottoposti a un severo giudizio di moralità. La storia di Paolo e Francesca, che sta per essere raccontata, è un’amara riprova di questa necessità.

Fra i morti per amore Dante individua una coppia (sono Paolo Malatesta e Francesca da Rimini) più leggera delle altre, nel senso che oppone meno resistenza alla bufera e, quindi, volteggia ancora più rapinosamente intorno al cerchio: segno, probabilmente, di un peccato più grave. Incuriosito, Dante ci parlerebbe volentieri. Virgilio non glielo nega, anzi, lo invita ad aspettare fin quando, nella giostra infernale della bufera, i due amanti si faranno più vicini; a quel punto Dante potrà pregarli in nome dell’amore che ancora li perseguita. Cosa che egli fa, rivolgendosi ai due con particolare delicatezza: li chiama anime affannate (non «dannate»!), con un aggettivo che esprime simpatia per la loro condizione e che non gliene rinfaccia la causa; allude con grande tatto alla benevolenza divina, ovviamente necessaria affinché venga, per così dire, rilasciato il permesso per il colloquio; pur se Dio, lontano e nemico di questi peccatori, non può essere citato direttamente ma soltanto delicatamente alluso (s’altri nol niega). Non per nulla l’invocazione di Dante viene definita affettuoso grido: un richiamo in cui vibra una nota di affetto, di gentile compassione. Tanto efficace da fare uscire Paolo e Francesca dalla schiera dei loro compagni, per dirigersi verso Dante come due colombe che tornino al nido.
Dunque, prima uno stormo di stornelli, poi una lunga fila di gru e adesso una tenera coppia di colombe. Il canto è scandito da questa serie di paragoni “ornitologici”, che impostano il registro stilistico del racconto su un tono progressivo: dalla malinconia alla tenerezza, dal lamentoso verso delle gru a questo tubare di colombe (gli animali, non dimentichiamo, sacri a Venere, dea dell’amore). Che cosa significa? Che l’atmosfera di questo canto si va schiarendo dalla disperazione dell’inizio a una sorta di oasi idillica, abitata da sentimenti delicati e affettuosi? Evidentemente no: stiamo soltanto entrando nella complessità del modo di raccontare dantesco, in cui la situazione morale di ogni cerchio si incarna, volta per volta, in un concreto clima sentimentale ed emotivo. Il clima di gentilezza, simpatia e compassione che si stabilisce tra Francesca e Dante non è contraddittorio rispetto alla situazione infernale di questo secondo cerchio, ma è funzionale al messaggio poetico e morale del canto.

Prima di cominciare il suo racconto, Francesca lo fa precedere da un’elaborata apostrofe, come per “registrare” accuratamente la tonalità della comunicazione e stabilire un caldo rapporto di simpatia con l’interlocutore. Dante viene apostrofato facendo appello alla sua umanità, cortesia e benevolenza; il peccato di Francesca viene riconosciuto con una sorta di pudica reticenza («noi che abbiamo macchiato il mondo di color di sangue»: con allusione, si badi, alle loro morti violente, non al peccato di lussuria); c’è perfino il rimpianto di non poter pregare Dio (che purtroppo non è amico di queste anime) per Dante: se lo meriterebbe, visto che ha pietà della loro dannazione. Infine, l’ultimo tocco a questa accurata regia di comunicazione è portato dalla sottolineatura che il vento, ovvero la bufera infernal, si sta placando: miracoloso assenso, dall’alto, al colloquio che sta per aver luogo e che crea intorno al racconto di Francesca una tonalità di profondo raccoglimento, un intervallo di pace e di silenzio nell’assordante frastuono del secondo cerchio.
Per la seconda volta si cita qui la pietà di Dante. Sarà dunque il caso di fermarsi un poco, visto che questo tema della pietà di Dante per Paolo e Francesca, e più in generale per le anime dannate, è stato uno dei più dibattuti dai lettori e critici di questo canto.
Nessuno ormai legge più la pietà di Dante come contraddittoria rispetto all’impianto dottrinale della Commedia. Questa è stata l’interpretazione tradizionalmente romantica del poema: la pietà di Dante per i peccatori, e in specie per Francesca, sembrava tradire un dissenso profondo nei confronti del sistema morale che governa l’intera opera. Insomma, secondo tale interpretazione, Dante metteva Paolo e Francesca all’inferno ma contro se stesso, senza credere che il loro comportamento davvero meritasse le pene sofferte; la sua pietà veniva letta come una sorta di sintomo del disagio ideologico del poeta, da una parte costretto a seguire la morale del suo tempo, e dall’altra, nel profondo delle sue convinzioni, in disaccordo rispetto a essa.
In realtà, si può affermare che la pietà sia sentimento non occasionale o sporadico, ma costitutivo di Dante viaggiatore nell’oltretomba cristiano. Ciò accade per la semplice ragione che, se l’inferno è l’esperienza del male, questo male non è mai assoluto; il peccato non cancella mai né abolisce la personalità del peccatore. Francesca è un’adultera, ma ciò non toglie che rimanga una signora di nobili maniere e di sentimenti squisiti; più avanti vedremo che Brunetto Latini, venerato maestro del poeta, è un sodomita, ma ciò non toglie che egli rimanga un professore straordinario, maestro non solo di scienza ma di retta morale; e così Ugolino sarà anche uno spietato politico e traditore della patria, ma non per questo cessa di essere un padre tenerissimo e così via. Sarebbe comodo, e più tranquillizzante, se il male prendesse sempre le sembianze di persone sgradevoli. La pietà di Dante per le anime dannate, infine, ha anche una precisa funzione educativa. Pietà, infatti, significa compassione, coinvolgimento, identificazione, almeno parziale, con chi si ha di fronte. Ciò è essenziale al cammino di Dante viaggiatore infernale. Egli deve provare pietà e via via identificarsi con i dannati che incontra per capire come quei peccati potrebbero essere anche i suoi peccati, come sarebbe facile cadere per sempre e senza rimedio, come pericoloso e fragile sia l’itinerario della vita umana verso la salvezza. Invece che limitarsi ad aderire ideologicamente alla struttura morale che modella l’inferno cristiano, Dante reagisce emotivamente e moralmente a quella struttura. La sua pietà, necessaria, è una componente fondamentale del suo penoso itinerario di catarsi interiore, di progressivo distacco dalle tentazioni e dagli esempi del male.

Nella pausa della bufera placata, su uno sfondo di improvviso silenzio, il racconto di Francesca comincia con una nota nostalgica di pace e di raccoglimento: la città natia siede e il Po discende; lo sbocco al mare del gran fiume con i suoi affluenti è reso con la metafora dell’aver pace (per aver pace co’ seguaci sui). Dopo questa premessa biografica e topografica, scattano le tre celebri terzine che descrivono la storia di amore e morte che ha travolto Francesca: tutt’e tre marcate all’inizio dalla parola Amor; le prime due anche dalla simmetria ritmico-sintattica dei versi incipitari (Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende/Amor, ch’a nullo amato amar perdona: da notare la rispondenza dei pronomi relativi e dei verbi collocati in fine verso).
Le prime due terzine d’amore sono problematiche. Qui infatti Francesca enuncia le leggi d’amore che hanno determinato il suo peccato come leggi indiscutibili, a tutti note, e inoppugnabili; quasi come se stesse dichiarando un teorema matematico o una legge fisica. È evidente il suo tentativo di spersonalizzare la propria colpa, appellandosi all’inevitabilità di un meccanismo psicologico automatico. Il meccanismo è il seguente: l’amore attecchisce in ogni cuor gentile; Paolo aveva un cuor gentile, dunque non poteva che innamorarsi. L’amore non permette che l’amato non corrisponda al sentimento dell’amante: Francesca era amata, dunque non poteva che riamare. Il fatto è che Francesca non dice esattamente così. È vero che l’amore s’apprende al cor gentil, ma nella prima terzina la conseguenza è che Paolo si fa travolgere dalla passione per la bella persona, per la bellezza fisica, di Francesca ; e con una tale violenza che quella passione ancora fa soffrire la donna delle sue funeste conseguenze. Così, nella seconda di queste terzine: è vero che l’amato non può che rispondere al sentimento dell’amante, ma, anche qui, la corrispondenza di Francesca alla passione di Paolo si traduce in un invaghimento fisico per il di lui piacer (“bellezza”). Dunque Francesca parte, inizialmente, dagli enunciati ben noti dell’ars amandi del suo tempo: quella consacrata, in specie, nel De amore di Andrea Cappellano (composto verso il 1185) o quella di recente rinnovata dalla teoria del «cor gentile», secondo cui il cuore gentile e amore erano una cosa sola, come aveva proclamato Guido Guinizzelli nella canzone famosa, e aveva ripetuto Dante stesso in un sonetto della Vita nuova («Amore e ’l cor gentil sono una cosa»). Tuttavia quella che Francesca enuncia non è affatto la teoria guinizzelliana o dantesca del cor gentile, secondo cui la capacità di provare amore è segno che si possiede un cuore nobile e, viceversa, chi possiede un cuore naturalmente nobile non può fare a meno di amare, per cui l’amore si trasforma, da banale passione, in una sorta di aristocrazia spirituale e si esprime nella devozione adorante per la donna amata. Nelle parole – e nell’esperienza – di Francesca, le premesse teoriche vengono travolte dall’insorgere dell’appetito sensuale: di lui per la bella persona di lei e di lei per il piacer di lui. Anche le regole dell’amore cortese finiscono travolte da quel talento che, come sappiamo, i lussuriosi antepongono alla ragion.
Un’ultima osservazione. Talvolta si dice che Francesca qui cita la teoria d’amore dello Stilnovo. A dire la verità, lo Stilnovo qui non c’entra nulla e non ci può entrare: stil novo, infatti, è espressione che Dante conierà più tardi, nel canto XIV del Purgatorio, e anche lì non è detto che voglia indicare una vera propria scuola poetica. No: il punto di riferimento di Francesca non è, né può essere, lo Stilnovo ma la teoria, questa sì, dell’amore cortese, del quale la poesia giovanile di Dante e dei suoi amici (chiamiamolo pure Stilnovo, se si vuole) rappresentò una variante particolarissima. L’equivoco può nascere dal fatto che Francesca cita, come si è visto, Guinizzelli, e Guinizzelli è per Dante il padre / mio e de li altri miei miglior che mai / rime d’amor usar dolci e leggiadre (Purgatorio XXVI, vv. 97-99), ovvero il precursore della propria maniera poetica. Per questo verso, è vero, ma molto obliquamente, che Francesca cita massime facenti parte del privato codice amoroso di Dante; il che può spiegare il forte effetto di coinvolgimento del poeta di fronte a un’anima infernale che pronuncia versi per lui tanto cari e significativi.

Difficile non lasciarsi catturare dalle parole di Francesca. Difficile specie per uno come Dante, che ha ben riconosciuto nelle leggi d’amore enunciate dalla donna il riflesso di una cultura che è anche la sua. Di qui il suo chinare il viso e il suo lungo assorto silenzio, tanto che Virgilio stesso deve intervenire: «A che cosa stai pensando?». «Penso – risponde Dante – a quanti dolci pensieri, a quanto desiderio spinsero questi due amanti al doloroso passo, cioè alla loro colpa fatale». Che è come dire: «Penso alla distanza che c’è, che cera, tra l’innamoramento e la colpa». Per questo quando Dante riprende il discorso con Francesca, ribadendo la sua partecipazione di lacrime, di tristezza e di pietà alla sua storia sventurata, fa una domanda che sembra, lì per lì, dettata da una curiosità se non inopportuna, un po’ voyeuristica: «Come vi siete confessati il vostro amore? Come ve ne siete accorti? Come siete passati dai dubbiosi disiri, cioè dall’incertezza di essere contraccambiati, alla rivelazione della reciproca passione?». Ma appunto, non è voglia di pettegolezzi. Dante vuole sapere proprio come Paolo e Francesca sono passati dal vagheggiamento dell’amore all’adulterio, da una fantasia erotica che poteva rimanere innocente alla consumazione della colpa.
Il cerchio si chiude, perché «le donne antiche e i cavalieri», sui quali si era aperto l’episodio e di fronte ai quali Dante era rimasto smarrito, tornano qui anche nel racconto di Francesca. Fra gli amanti moderni, ma già entrati nella leggenda, Virgilio aveva indicato Tristano; di certo, se il verso glielo avesse consentito, avrebbe aggiunto anche il nome di Isotta. Francesca, invece, parte dall’altra coppia fatidica del romanzo cortese arturiano: Lancillotto e Ginevra. Leggevano un giorno, ella dice, lei e Paolo, la grande storia d’amore di Lancillotto e della sua regina, ed erano soli, senza alcuna idea di ciò che sarebbe successo di lì a poco; ancora, dunque, nella beata ma fragile innocenza dei dubbiosi disiri. A forza di leggere dei due amanti arturiani, Paolo e Francesca cominciano a turbarsi: i sentimenti dei due personaggi trapassano dal libro alla realtà. Più volte si guardano negli occhi, impallidiscono, finché, quando arrivano a leggere del primo bacio di Lancillotto a Ginevra, non resistono più, e il bacio passa dalle pagine del romanzo alla vita dei due lettori; i quali, quel giorno, non andarono più avanti nella lettura, e si può ben capire perché.
Adesso tutto è più chiaro. Certo, in questo cerchio è punito il peccato di lussuria, ma la lussuria, diciamo pure il sesso, non lo si conosce e non lo si pratica se non attraverso specifici modelli culturali. Ed è un modello culturale che è al centro del turbamento di Dante in questo canto: quello dell’amore cortese, che aveva presentato storie esemplari di vizio, di tradimento e di lascivia come affascinanti racconti di amore e morte; che aveva trasformato adulteri e adultere in figure di charme leggendario. Paolo e Francesca sono caduti nella trappola: non hanno resistito al contagio del romanzo, hanno scambiato la fiction per la vita reale.

L’altra metà della coppia, Paolo, non ha fatto che piangere durante il racconto di Francesca; d’altronde, lei stessa aveva premesso che avrebbe fatto come colui che piange e dice, cioè che avrebbe parlato e pianto al tempo stesso. Perché piangono, Paolo e Francesca? Per tanti motivi: per la fine sventurata del loro amore; per la dannazione che li castiga in eterno; ma qui soprattutto si direbbe che piangano di intenerimento su se stessi, su quella indimenticabile lettura romanzesca costata tanto cara. Dante, sopraffatto dalla pietà, cade svenuto e il canto si chiude sul tonfo, per così dire, del corpo del poeta che piomba a terra come un cadavere.
Pietà dei due amanti, certo: ma anche pietà di se stesso. Dante sviene anche perché sa quanto da vicino egli abbia sfiorato la stessa colpa di Paolo e Francesca: non solo la lussuria, ma, soprattutto, l’errore di scambiare la letteratura e la poesia con la vita, e di vivere l’amore non secondo il rigore della fede cristiana, ma secondo i codici ingannevoli e pericolosi dell’amore cortese. Quanto attraenti, però, quelle meravigliose avventure di re Artù…

Pubblicato da bmliterature

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2 Risposte a “Divina Commedia, Inferno, Canto V – Dante Alighieri (Analisi del Testo)”

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