Francesco Petrarca – Il Canzoniere

canzoniereLa maggior parte delle opere di Petrarca sono scritte in latino. In lingua volgare sono solo le liriche del Canzoniere e un poema allegorico, i Trionfi, rimasto incompiuto. E’ curioso per noi, oggi, constatare che Petrarca si attendeva la fama e l’immortalità presso i posteri non da quello che noi unanimemente consideriamo il suo capolavoro, ma dalle opere latine. Egli riteneva di essere il continuatore degli autori classici, colui che riportava in vita il gusto del bello e la magnanimità di sentire che erano stati propri della civiltà latina, e per questo si proponeva di emulare gli antichi scrivendo poemi epici come Virgilio, storie come Livio, epistole come Cicerone. Per contro, ostentava di tenere in poco conto le proprie liriche in volgare, come componimenti di dignità minore, tanto da definirle “inezie, bazzecole”. Ma questo atteggiamento è contraddetto dalla cura con cui lavorò per anni, sino agli ultimi giorni di vita, a limare e a rendere perfetti i suoi versi volgari, a ordinare e ad arricchire la loro raccolta. Ciò non vuol dire che l’atteggiamento di sufficienza verso la poesia volgare fosse solo una posa esteriore e falsa. Petrarca era effettivamente convinto della maggior dignità del latino. Lo si può verificare chiaramente nella lettera in cui discute con Boccaccio della Commedia, dove, pur riconoscendo la grandezza di Dante, sostiene che avrebbe raggiunto un più alto livello letterario se avesse usato la lingua di Roma. Però egli era persuaso (e lo afferma esplicitamente) che la letteratura latina avesse toccato un culmine di perfezione che non poteva più essere superato: in quel campo, dunque, non restava che imitare gli antichi, riprodurre i loro temi e le loro forme. La lingua volgare invece offriva un campo aperto, un terreno pressoché vergine per chi volesse raggiungere l’eccellenza poetica. Ciò spiega l’impegno accanito a perfezionare i suoi versi volgari.
Egli si prefiggeva una duplice impresa: da un lato ridar lustro alla lingua antica, restaurandone la genuina classicità, il lessico, la sintassi, i procedimenti retorici, dall’altro elevare la lingua volgare alla dignità formale del latino. Pur convinto che la lingua per eccellenza della letteratura fosse il latino, Petrarca voleva dimostrare che era possibile far poesia di livello alto anche in volgare. Questo duplice sforzo di Petrarca è storicamente significativo e denso di anticipazioni del futuro. Nell’età successiva, quella del pieno Umanesimo e quella rinascimentale, si avrà in un primo tempo una rinascita ed un predominio del latino, poi si affermerà una letteratura in lingua volgare modellata sui classici.
Ma se vogliamo spingere lo sguardo verso il passato, oltre che verso il futuro, tale atteggiamento ci consente di cogliere la distanza che separa Petrarca da Dante. Questi puntava tutto sul volgare, si lanciava in un’appassionata difesa di esso, come lingua della prosa filosofico-scientifica e della poesia lirica; concepiva un vero e proprio trattato di retorica per codificare la nuova lingua letteraria, nel suo stile sublime (il De vulgari eloquentia), ed in questa lingua osava addirittura scrivere il «poema sacro», che doveva abbracciare la totalità del reale, «e cielo e terra». Con Petrarca si ha un percorso per così dire all’inverso, in quanto il latino riconquista la sua supremazia. Ma non è veramente un tornare indietro: il latino petrarchesco non è più il latino medievale, bensì una lingua che mira a riprodurre l’idioma letterario antico in tutta la sua purezza. E se accanto al latino viene accolto e consacrato letterariamente anche il volgare, esso non ha più nulla a che vedere con la lingua di Dante, quella lingua multiforme e ricca di tensioni interne, ma è una lingua selezionata e raffinatissima, che vuole uniformarsi alla compostezza e regolarità del latino.

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LA FORMAZIONE DEL CANZONIERE
Petrarca cominciò a scrivere versi in volgare sin dalla prima giovinezza, probabilmente quando era a Bologna a seguire i corsi di diritto, e continuò sino agli ultimi anni di vita. Ben presto pensò anche a raccogliere organicamente le sue liriche, e copie di queste redazioni ancora parziali sono giunte sino a noi. Gli studiosi sono riusciti a ricostruire ben nove redazioni successive della raccolta. La sistemazione definitiva risale proprio all’ultimo anno di vita del poeta, il 1374, ed è contenuta nel manoscritto Vaticano 3195, in parte di pugno del Petrarca stesso. E’ quindi un fatto di eccezionale importanza possedere un’opera del tardo Medio Evo, nella stesura definitiva, in buona parte autografa: ciò evita quelle incertezze nella trasmissione testuale che sono proprie dei testi anteriori alla stampa (si pensi solo al caso della Commedia, per cui è impresa ardua stabilire un testo attendibile). Egualmente prezioso è un altro codice petrarchesco della Biblioteca Vaticana, il cosiddetto “codice degli abbozzi”, che contiene stesure diverse di numerosi componimenti, con note a margine di pugno del poeta, e ci permette di seguire da vicino l’assiduo, accanito lavoro di Petrarca, che corregge, sostituisce o sposta una parola, sino a quando il verso non raggiunge quella che ai suoi occhi è la perfezione.
Il titolo che Petrarca pone sul manoscritto definitivo è Rerum vulgarium fragmenta (Frammenti di cose in volgare), in cui si può cogliere la punta di sufficienza che il poeta ostentava nei confronti delle sue liriche in volgare. L’opera si suole anche designare con la formula Rime sparse, ricavata dal primo verso del sonetto che funge da proemio («Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono»), oppure, più semplicemente, come Canzoniere. Esso è costituito da 366 componimenti, quindi ripeterebbe il numero dei giorni dell’anno, escludendo quello proemiale. In massima parte si tratta di sonetti (317), ma anche di canzoni, ballate, sestine, tutte le forme metriche consacrate dalla tradizione lirica precedente, dai trovatori provenzali ai rimatori siciliani agli stilnovisti.

L’AMORE PER LAURA
La materia quasi esclusiva del Canzoniere è costituita dall’amore del poeta per una donna, chiamata Laura, incontrata «il dì sesto d’aprile», venerdì santo, in una chiesa di Avignone, nel 1327. Nel libro si percorre il diagramma di una passione tutta umana e terrena, che non esclude l’aspetto sensuale. È un amore perpetuamente inappagato e tormentato. Il poeta è chino su se stesso ad esplorare moti e conflitti interiori, e spesso assapora quasi il piacere di soffrire e di piangere («un certo piacere di soffrire», diceva già nel Secretum). Gli stati d’animo rappresentati dalla poesia riflettono un continuo oscillare tra poli opposti, senza mai una risoluzione definitiva: ora il poeta tesse intorno alla donna complesse architetture d’immagini, giocando simbolicamente sul nome Laura, che richiama il “lauro” poetico (sono le cosiddette rime “dafnee”, poiché Dafne, amata da Apollo, si era trasformata in alloro); ora contempla l’immagine della donna, creata dal sogno, dalla fantasia o dalla memoria (poiché Laura è sempre lontana, “altrove”, nello spazio o nel tempo) e si nutre di vane speranze; ora lamenta la sua crudeltà e indifferenza, paragonandola ad una «fera bella e mansüeta», e invoca pietà per le proprie sofferenze; talvolta, stanco di tendere ad un fine irraggiungibile e di sopportare vani tormenti, si protende verso la liberazione e la pace interiore, elevando la sua preghiera a Dio, e confessa che di tanto «vaneggiare» unico frutto è la vergogna, il pentimento e il conoscere chiaramente «che quanto piace al mondo è breve sogno»; ma nonostante tutto la forza della passione lo riprende e lo domina, riconducendolo alla vicenda ben nota di sogni, fantasticherie, desideri, lacrime, sospiri.
Francesco_Petrarca01Questa vicenda ha una svolta con la morte della donna (1348). In tal modo il Canzoniere risulta nettamente diviso in due parti, le “rime in vita” e le “rime in morte” di Laura. Alla morte della donna amata il mondo sembra improvvisamente scolorire, farsi vuoto e squallido. Ma non per questo la passione si estingue. Il poeta si volge indietro con desolato rimpianto verso un tempo che non può ritornare, crede ancora di vedere Laura come se fosse viva nei luoghi consueti, sullo sfondo di «verdi fronde» mosse dall’aria estiva o di limpide acque correnti, oppure la vagheggia in cielo, dove si è trasferita lasciando in terra il «bel velo» corporeo che aveva suscitato in lui tanti desideri. Nel sogno Laura appare «più bella e meno altera», più mite e compassionevole verso le sue sofferenze. Ma dopo il lungo «vaneggiare» il poeta sente il peso del peccato e il desiderio di una purificazione; guarda con angoscia il trascorrere del tempo, che trascina con sé tutte le cose belle e fuggevoli. la vita che «fugge e non s’arresta un’ora» e avvicina inesorabilmente l’ora della morte. La morte non appare come un porto tranquillo in cui trovare rifugio, ma un «dubbioso passo», pieno di insidie e di pericoli. Per cui il poeta vorrebbe volgersi verso qualcosa di più saldo e duraturo che non gli ingannevoli beni terreni, verso il cielo: il libro, con la tormentata vicenda che lo percorre, si conclude con una canzone di preghiera alla Vergine, in cui il poeta esprime un intenso desiderio di superare ogni conflitto, di trovare finalmente la pace. E «pace» è appunto l’ultima, emblematica parola della canzone, la parola che chiude e suggella il libro.

LA FIGURA DI LAURA
Il poeta, nel raccogliere le sue poesie scritte in varie occasioni e su un lungo arco di tempo, benché le definisca «rime sparse» si preoccupa in realtà di ordinarle in un’architettura unitaria, in modo da delineare una precisa vicenda. Il Canzoniere, insomma, non è solo l’addizione di una serie di poesie in sé indipendenti, ma vuole offrirsi come un libro compiuto. E certo vi è alla base di esso un’esperienza reale e sinceramente vissuta. Tuttavia sarebbe sbagliato interpretarlo (come spesso è stato fatto) quale confessione diretta di vicende autobiografiche, ricavarne un “diario” o un “romanzo”, con una trama e un vero e proprio svolgimento, corrispondente alle esperienze del poeta. Sarebbe un modo di leggere moderno, romantico (prodotto cioè da una stagione culturale che ha esaltato la poesia come trascrizione spontanea dei sentimenti), che risulterebbe del tutto inadeguato alla sottile e intellettualistica tessitura della lirica medievale, che opera su convenzioni rigidamente definite. E la poesia di Petrarca è pur sempre un prodotto della cultura medievale, sia pure dell’“autunno” del Medio Evo; ma comunque il discorso non cambierebbe di molto per la cultura classicistica e cortigiana del Rinascimento. Quindi, se nel Canzoniere si delinea una vicenda, essa non è identificabile immediatamente con l’esperienza vissuta dal poeta, ma va considerata come una trasfigurazione letteraria, come una costruzione ideale, esemplare, che segue determinati codici, e quindi allontana e sfuma la realtà da cui prende le mosse.
Già per la poesia stilnovistica e per la Vita nuova si era sottolineata l’atmosfera rarefatta e irrealistica in cui erano immersi attori e situazioni della vicenda d’amore. Col Canzoniere questa atmosfera si fa ancora più impalpabile. È vero, come è sempre stato messo in rilievo, che Laura e molto più umana delle remote e inattingibili immagini femminili degli stilnovisti e di Dante, poiché rientra in una dimensione psicologica più viva e mossa, più vicina all’esperienza comune, e poiché è inserita nella dimensione del tempo, sottoposta alla sua azione disgregatrice. Tuttavia è ben lontana dall’avere la concretezza corposa di un personaggio reale. Compaiono spesso nel Canzoniere notazioni riferite alla sua bellezza fisica, ma la sua figura resta oltremodo evanescente: i vari particolari su cui il poeta insiste, i «capei d’oro», il «vago lume» dei «begli occhi», il «dolce riso», le «rose vermiglie» delle labbra, la «neve» del viso, il collo «ov’ogni latte perderia sua prova», il «bel giovenil petto», le «man bianche e sottili», l’«angelico seno» della gonna, il «bel fianco», il «bel piè», gli«atti soavemente alteri», l’«andar» che non è «cosa mortale, ma d’angelica forma», non compongono un’immagine definita, ma rispondono ad un formulario tradizionale ed hanno l’eleganza astratta di una cifra, di un emblema. L’immagine complessiva di Laura, quale resta nella memoria dopo la lettura del Canzoniere, è il vago profilo di una bella donna bionda, che si staglia di regola su un ridente sfondo naturale.

IL PAESAGGIO E LE SITUAZIONI DELLA VICENDA AMOROSA
Anche il paesaggio non si delinea nell’urgenza materiale e sensibile delle sue forme, dei suoi colori, dei suoi profumi, e risulta anch’esso da elementi estremamente stilizzati: erbe, fiori, fronde, monti, selve, acque limpide, cieli sereni, tutti gli elementi che compongono l’immagine del locus amoenus (luogo ameno) consacrata da una lunga tradizione, che risale ai poeti classici e giunge sino ai trovatori e agli stilnovisti.
Un’analoga mancanza di concretezza realistica presentano le situazioni e gli episodi in cui si articola la vicenda amorosa: apparizioni di Laura, saluti e sguardi negati o concessi, smarrimenti del poeta, sogni e fantasticherie, passeggiate solitarie, notti insonni, colloqui con la natura, lacrime, sospiri: sono tutte, dal più al meno, situazioni codificate dalla lirica amorosa precedente, dalla Provenza alla Toscana stilnovistica. Insomma, nel Canzoniere non si compone una trama di eventi esteriori, di fatti corposi, che si articolino nella successione cronologica di una vicenda vissuta. E come la natura si assottiglia in uno stilizzato arabesco, e la privata vicenda amorosa sfuma in una vaga sequenza di situazioni stereotipate, così è quasi del tutto assente dalla poesia del Canzoniere il mondo della storia contemporanea con i suoi conflitti, quel mondo che si imponeva con violenta immediatezza nella Commedia (se si eccettuano due canzoni politiche, Italia mia e Spirto gentil, e pochi altri componimenti, come i sonetti contro la corruzione della Curia avignonese). L’orizzonte della poesia, che con il poema dantesco si era allargato ad abbracciare il reale in tutte le sue manifestazioni, dal caotico mondo della storia umana all’immobile perfezione del mondo divino, torna nuovamente a restringersi entro i limiti di un’esperienza squisitamente soggettiva e privata. Leggendo il Canzoniere si ha l’impressione che la realtà esterna non esista, se non come remota e diafana memoria, o cifra puramente allusiva, e che l’unica e autentica realtà sia l’interiorità del poeta.

IL “DISSIDIO” PETRARCHESCOFrancesco Petrarca
Se per Petrarca l’unica realtà che conta è quella interiore, la sua poesia, più che come racconto di una vicenda d’amore, va letta come lucida analisi della coscienza. La tormentala esperienza d’amore è assunta come simbolo di un’esperienza più vasta, sentimentale, intellettuale e religiosa insieme, quella già analizzata nelle prose latine di confessione. Il tema amoroso per il poeta non è che l’occasione per concentrare intorno ad un nucleo stabile l’accanita esplorazione interiore, l’esame dei suoi sentimenti oscillanti e contraddittori e delle sue preoccupazioni morali e religiose, la stanchezza e il peso della carne, la vergogna per la debolezza del volere e la schiavitù del peccato, gli aneliti di purificazione e i ripiegamenti delusi.
Anche nel Canzoniere si impone in piena evidenza quel dissidio interiore che era stato così acutamente analizzato nel Secretum. Ciò che caratterizza la spiritualità di Petrarca è un bisogno di assoluto, di eterno, di un approdo stabile in cui l’animo trovi una «pace» perfetta. In contrasto con queste aspirazioni fondamentali, egli sente con angoscia la labilità di tutte le cose umane. Come attesta l’ultimo verso del sonetto che funge da proemio al libro, in lui è chiara la consapevolezza che «quanto piace al mondo è breve sogno». Tutti i piaceri e le gioie che gli uomini inseguono affannosamente, impiegando nella ricerca il loro tempo e le loro forze, sono illusioni effimere, destinate a dissolversi col sopraggiungere della realtà ultima e definitiva, la morte. La gloria, che Petrarca stesso tanto desidera, è cosa vana, che non appaga e che si dilegua subito; anche l’amore è un sogno, che la realtà delude. Gli occhi di Laura, i «duo bei lumi più che ’1 sol chiari», nella morte sono diventati anch’essi «terra oscura»; e questa misera fine insegna «come nulla qua giù diletta e dura». Nella poesia petrarchesca risuonano spesso gli accenti del medievale disprezzo del mondo e dei piaceri materiali.
Da questa delusione deriva al poeta una continua inquietudine, un senso di inappagamento perpetuo. Già nel Secretum affermava, riecheggiando sant’Agostino, «sento qualcosa di insoddisfatto nel mio cuore, sempre». Deluso dalla vita terrena, stanco sotto il «fascio antico» del peccato che grava su di lui, vorrebbe rivolgersi interamente al cielo, abbandonare ogni vanità, condurre una vita assolutamente pura. Perciò, nella sua interna architettura, il Canzoniere vorrebbe offrirsi, secondo il modello medievale della “conversione” consacrato dalle Confessioni di sant’Agostino e dalla Commedia dantesca, come la vicenda di un’anima che si libera dalle impurità umane e si innalza a Dio, trovando in lui la pace e la salvezza. Il disegno è evidente nell’ordinamento della raccolta che, dopo aver tracciato il percorso dei «perduti giorni» e delle «notti vaneggiando spese», come indica sempre il sonetto d’apertura, si conclude con la preghiera alla Vergine e con l’invocazione alla «pace».
Ma il Canzoniere non è la Commedia: il viaggio dell’anima non può concludersi, e il dissidio interiore al termine del libro non trova una soluzione (come già non la trovava nel Secretum). Per usare un’immagine della Commedia, mentre Dante scrive la sua opera quando già è uscito «fuor del pelago a la riva» e può voltarsi a guardare ormai al sicuro l’«acqua perigliosa», Petrarca compone il Canzoniere quando è ancora immerso nelle acque tempestose; anzi, dinanzi a sé, per tutto il corso della vita, non vede che tempesta, anche in quello che dovrebbe essere il «porto», la morte («veggio al mio navigar turbati i venti; / veggio fortuna [fortunale, tempesta] in porto»). Se il poeta è inappagato dall’umano, non può neppure trovare la pace e la liberazione in Dio: al mondo e ai suoi beni resta, comunque, indissolubilmente legato. Ma ciò avviene perché il suo ideale autentico non è il semplice rifiuto del mondo, bensì la conciliazione del divino e dell’umano: assicurare alle cose terrene la stabilità delle cose celesti, che le preservi dalla corrosione del tempo e della morte e tolga alle gioie della terra il loro carattere peccaminoso, conferendo ad esse piena e totale dignità. E il suo tormento si origina dalla coscienza dell’irrealizzabilità di questo sogno.
Quindi il “dissidio” di Petrarca si apre non tanto, come si suole genericamente indicare, tra carne e spirito, umano e divino, ma tra una concezione ascetica, che impone una totale rinuncia al mondo per trovare la pienezza e la beatitudine, e il sogno impossibile di una conciliazione tra terra e cielo, che dia pieno valore alle cose umane (Bosco). Alla luce di queste considerazioni si può dire che il Canzoniere, come il Secretum, riflette non solo una crisi individuale, ma la crisi di un’epoca: il conflitto fra terra e cielo, tipico della visione medievale..

LINGUA E STILE DEL CANZONIERE
Nella Commedia la molteplicità di presenze reali si traduceva nella molteplicità di piani linguistici: Dante mescolava materiali provenienti dai campi più diversi, i dialetti, il latino, la lingua d’oc e quella d’oïl, coniava neologismi vertiginosi, accostava termini crudi e plebei a quelli designanti le realtà più sublimi e cercava deliberatamente lo scontro tra i vari livelli, le dissonanze e gli stridori, al fine di potenziare la carica espressiva del suo linguaggio. La rigorosa selezione a cui Petrarca sottopone il reale, invece, si traduce in una lingua che impiega un numero ristrettissimo di vocaboli; non solo, ma il linguaggio petrarchesco è anche rigorosamente uniforme: i pochi termini ammessi sono attinti tra quelli più piani e generici. Petrarca rifiuta ogni parola troppo corposa e precisa, troppo realistica ed espressiva, troppo aulica e rara o troppo pedestre, ed evita ogni scontro violento tra livelli stilistici, ogni stridore di suono e significato. Contini, per definire lo stile petrarchesco, ha parlato di «unilinguismo». Nessuna parola spicca mai, come intensa macchia di colore, nel tessuto del discorso: esso tende piuttosto a creare un tono medio, un’armonia d’insieme in cui nessun particolare predomini. Di qui nasce l’impressione di levigatezza, di nitore, di semplicità, di piana scorrevolezza, di dolce fluidità musicale comunicata dai versi petrarcheschi. Come il poeta stesso afferma, il suo assiduo, infaticabile lavoro di lima sui testi tende a «far soavi e chiare» le rime «aspre e fosche». In queste parole, e soprattutto nel termine chiave «aspre», si può forse cogliere una segreta allusione allo stile dantesco, quel Dante che proclamava nelle rime petrose «Così nel mio parlar voglio esser aspro» e che nella Commedia invocava le «rime aspre e chiocce» per dipingere convenientemente il «tristo buco» infernale: un’allusione che suona come un fermo ripudio, un’inconciliabile discordanza di gusto.
In sintesi la fisionomia complessiva del capolavoro petrarchesco risulta dalla quasi miracolosa fusione di due aspetti apparentemente antitetici; da un lato l’inquieta e tormentata visione di un’epoca di crisi e di trapasso della civiltà, ancora tutta impregnata di spiritualità cristiano-medievale; dall’altro un gusto poetico eminentemente classicistico. Questo secondo aspetto del Canzoniere inaugura una tendenza destinata a dominare per molti secoli nella letteratura italiana, una tendenza le cui caratteristiche salienti saranno un ideale altissimo di perfezione formale e di aulica dignità, una selezione schifiltosa degli aspetti della vita reale e la sovrapposizione costante di un velo letterario sulla rappresentazione della realtà e sull’espressione dei sentimenti. Questo gusto si affermerà soprattutto in età rinascimentale, tra Quattro e Cinquecento, resterà vivo nell’età barocca e tornerà pienamente in auge nel Settecento e nel primo Ottocento neoclassico.

Pubblicato da bmliterature

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