Giuseppe Parini – Il Giorno

LE901Negli stessi anni in cui componeva le odi “illuministiche” Parini lavorò ad un poema in endecasillabi sciolti che mirava a rappresentare satiricamente l’aristocrazia del tempo: l’opera si collegava quindi all’impegno civile e illuministico delle prime odi. Il poema aveva per argomento la descrizione della giornata tipo di un “giovin signore” della nobiltà milanese e nel progetto originario doveva articolarsi in tre parti, il Mattino, il Mezzogiorno e la Sera. Le prime due parti furono pubblicate rispettivamente nel 1763 e nel 1765, mentre la Sera non venne terminata. Più tardi si sdoppiò in due parti, il Vespro e la Notte, alle quali Parini continuò a lavorare sino ai suoi ultimi anni, senza però portarle a compimento.
Il Giorno rientra esteriormente nel genere della poesia didascalica, che era particolarmente diffusa nell’ambito della cultura illuministica. Il poeta, presentandosi come precettore, afferma di voler insegnare al “giovin signore” come riempire piacevolmente i vari momenti della sua giornata vincendo la noia. L’impianto del poema, quindi, più che narrativo è descrittivo: non viene individuata una particolare vicenda, ma viene descritta una giornata tipo dell’aristocrazia, presentando tutte le varie possibilità che al giovane si offrono per occupare il suo tempo.
Nel Mattino il nobile viene colto nel momento in cui si corica, all’alba, dopo una notte trascorsa a teatro o al tavolo da gioco; vengono quindi descritti il suo risveglio a mattina inoltrata, la colazione, la lunga toeletta, con un indugio su tutti gli oggetti che lo circondano. Alla fine il “giovin signore” è pronto per uscire e recarsi a trovare la sua dama. Uno dei motivi centrali della rappresentazione pariniana è infatti il fenomeno del cicisbeismo, per cui ogni donna sposata aveva il diritto ad un “cavalier servente” che l’accompagnasse costantemente in luogo del marito. Il rapporto doveva consistere, in teoria, in un puro “servizio” della donna, secondo una concezione che risaliva all’amor cortese del medioevo, ma di fatto si risolveva in una forma di adulterio legittimato.
Nel Mezzogiorno il “giovin signore” viene seguito in visita alla dama, con tutte le schermaglie amorose che ne derivano, poi durante il pranzo, in cui si intrecciano conversazioni sugli argomenti più vari, tra cui anche i temi filosofici alla moda. Infine la coppia, nel tardo pomeriggio, si reca al passeggio delle carrozze, dove si ritrova tutta la nobiltà cittadina.

Parini-GiuseppeL’impianto didascalico, derivante dagli insegnamenti che il “precettore” impartisce al suo pupillo è più sensibile nella prima parte, mentre sfuma nella seconda, dove, alla tavola della dama, compaiono vari altri personaggi. Comunque la struttura didascalico-descrittiva non è che un pretesto. Infatti tutto il discorso del precettore è impostato in chiave ironica e si fonda sulla figura dell’antifrasi, secondo la quale viene affermato il contrario di ciò che si vuole fare intendere. Il precettore finge di accettare il punto di vista del “giovin signore”, di condividerne i gusti, perciò la vita futile e vuota della nobiltà viene celebrata in termini iperbolici, come la vita eccezionale di veri e propri “semidei terreni”, e i gesti più banali, come sbadigliare o bere una tazza di caffè, diventano eventi portentosi, degni di essere cantati in termini sublimi; in realtà la vera essenza di quel mondo traspare inequivocabilmente dietro l’ironica enfasi celebrativa, e alle spalle del precettore si delinea chiaramente la figura del poeta, con il suo atteggiamento di ferma, sdegnata condanna. L’antifrasi ironica diviene così lo strumento critico più corrosivo nei confronti di una società oziosa e inutile.
La critica pariniana si vale però anche di altri strumenti, come ad esempio di un particolare trattamento del tempo e dello spazio. Innanzitutto non viene scelta una giornata particolare, che si segnali per qualche accadimento di rilievo, ma una giornata tipo, uguale a infinite altre; e già questo basta a dare il senso di una vita banaledove non succede mai nulla di importante. Inoltre il tempo in cui si collocano gli eventi descritti è piuttosto breve, poche ore, dal risveglio al tramonto, eppure, alla lettura, si ha l’impressione di un tempo lunghissimo: l’effetto è creato dall’indugio descrittivo estremamente lento, che dilata a dismisura il tempo reale. Oltre ad essere un tempo apparentemente lungo è anche un tempo vuoto, in cui si ripetono meccanicamente, monotonamente i medesimi gesti, le medesime parole. E’ un mondo vuoto, privo di senso, dominato solo dalla noia.
Un effetto analogo ottiene la rappresentazione dello spazio. Si tratta di uno spazio ristretto, quasi sempre chiuso; la scena è prima all’interno del palazzo, in seguito si sposta in quello della dama. Unica apertura è la scena del passeggio sul “corso”, ma solo apparentemente: anche lì lo spazio è limitato, e per di più gran parte dell’azione si svolge nel chiuso delle carrozze. La ristrettezza dello spazio rende l’impressione di una chiusura asfissiante e, insieme al tempo lunghissimo e vuoto, dà il senso di un mondo morto privo di energie vitali.

Nella descrizione della giornata del “giovin signore” si inseriscono però altri piani di realtà che hanno il compito di aprire altre prospettive. Alla nobiltà oziosa ed effeminata del presente viene contrapposta talora quella rude del passato, che, lontano dall’adagiarsi nelle mollezze, si gettava ferocemente nella batta­glia (si veda ad esempio il paragone tra il “giovin signore” avvolto da una nuvola di cipria ed il guerriero immerso tra il fumo dei cannoni). Anche qui scatta il meccanismo ironico, in quanto il “precettore” finge di provare orrore per quella barbarica ferocia e di esaltare le pacifiche operazioni della nobiltà d’oggi, ma è chiaro che l’atteggiamento del poeta è del tutto opposto ed è inteso a celebrare la nobiltà guerriera che sapeva affrontare la morte in batta­glia per difendere i concittadini e salvare la patria. La raffigurazione della vita nobiliare del presente è quindi il piano dominante dell’opera, ma non l’unico.
Nel presente stesso si apre un altro piano di rappresentazione: quello delle classi popolari. All’ozio vano e corrotto dei nobili si contrappone la vita operosa e sana del contadino e dell’artigiano che si dedicano ad attività utili alla collettività e si ispirano a valori fondamen­tali come il culto della famiglia. Oppure col fasto e con lo sperpero nobiliari contrasta il quadro della miseria popolare: sono gli indifesi plebei che per strada vengono travolti dalle ruote della carrozza aristocratica, è il servo messo sulla strada e costretto a chiedere l’elemosina con la sua famiglia per aver dato un calcio alla cagnetta della dama che l’aveva morso. La nobiltà crede di essere l’unica realtà esistente ed ignora ciò che vi è al di fuori dei confini del suo ambiente ristretto. Il “precettore” sembra corroborare questo convinci­mento richiamando l’immagine del popolo lavoratore e quella dei mise­ri affamati, l’urgere di un’altra realtà, ben più seria e drammatica.

L’inserzione di questi due piani (cioè la nobiltà del passato e le classi inferiori) ha l’effet­to di rompere la continuità della rappresentazione. Al medesimo fine tende l’inserimento delle cosiddette “favole”, brevi rac­conti di carattere mitologico, che servono a illustrare le origini di certi costumi sociali. Tra di esse è significativa la favola di Amore e Imene, che spiega le origini del cicisbei­smo: Amore e Imene, figli di Venere, un tempo andavano d’accordo. Poi, in seguito alla ribellione di Amore, ebbero dalla madre compiti diversi: Imene, dio del matrimonio, regnò sulle anime durante il giorno, Amore invece regnò sui corpi durante la notte. La favola allude al fatto che nella società nobiliare il matrimonio si riduce a pura facciata esteriore, mentre l’amore è riservalo esclusivamente ai rapporti adulteri tra il cavalier servente e la dama.

La condanna della nobiltà che emerge dal poema appare dura. Tuttavia l’intento dell’opera non è certo spingere all’eliminazione della classe privilegiata. Il poeta mira semmai, con la sua opera, a “educare l’aristocrazia, a indicarle la via di una rigenerazione, di un recupero dell’originaria funzione positiva che essa possedeva nella società. L’ideale di Parini è una nobiltà che faccia fruttare le proprie terre accrescendo la prosperità comune, anziché dissipare il tempo nell’ozio, e che al tempo stesso assuma una posizione attiva nella cultura e nell’amministrazione pubblica.
Se l’atteggiamento del poeta verso il mondo nobiliare, sia pur dietro il velo dell’ironia, è di condanna, è tuttavia ravvisabile in esso una sottile ambiguità. Parini indugia minuziosamente sugli aspetti della realtà aristocratica, riempie i suoi versi della descrizione di una serie interminabile di oggetti preziosi. Ma se tutto questo, attraverso l’artificio della celebrazione ironica e antifrastica, dovrebbe dare il senso della futilità vuota di quell’ambiente sociale e dovrebbe caricarsi di un segno fortemente negativo, in realtà dal discorso traspare una sorta di compiacimento del poeta come se fosse affascinato dall’eleganza, dalla grazia, dalla raffinatezza di quel mondo.
La critica ha spesso stigmatizzato questa contraddizione interna dell’opera ma, ad una lettura sgombra di pregiudizi, non si può dire che essa appaia un fattore veramente negativo, anzi, proprio l’ambiguità sottile tra sdegno morale e vagheggiamento sensuoso, tra severità razionale e compiaciuta eleganza, finisce per costituire il fascino dell’opera, che altrimenti rischierebbe do essere ripetitiva e monotona.

HGM_Weikert_Portrait_Joseph_IICome si è visto, negli anni Sessanta, Parini, insieme con tutta la cultura illuministica lombarda, era in accordo con la politica riformatrice di Maria Teresa. Negli anni Settanta le riforme del successore Giuseppe II, ben più radicali, suscitarono invece nel poeta e negli altri illuministi un netto disaccordo, un senso di delusione. Ciò che provocava la reazione negativa era innanzitutto l’autoritarismo del sovrano, che voleva regolare dall’alto ogni aspetto della vita amministrativa, civile e culturale, soffocando ogni iniziativa individuale; in secondo luogo, nel campo particolare della cultura, era l’impulso dato soprattutto allo sviluppo delle scienze, a discapito delle discipline umanistiche e classiche. L’autoritarismo di questa politica scontentò persino intellettuali come Pietro Verri, il più aperto ad accogliere riforme e innovazioni anche forti, fervente celebratore del progresso scientifico.
Se le riforme di Giuseppe II suscitavano reazioni del genere in Pietro Verri, a maggior ragione dovevano urtare Parini, politicamente più moderato, e soprattutto profondamente legato alla tradizione umanistica.
Di conseguenza negli anni Settanta-Ottanta, egli si andò sempre più allontanando dal perseguimento di finalità civili attraverso la scrittura letteraria. L’evoluzione è rispecchiata dal Vespro e dalla Notte e dalle ultime odi.

Nel Vespro il “precettore” (che però ha quasi del tutto smesso di impartire insegnamenti di comportamento mondano e si è trasformato in semplice narratore) accompagna il “giovin signore” e la sua dama, dopo il corso, in visita ad un amico malato e ad un’amica che ha appena avuto un attacco di nervi, suscitando nel bel mondo infiniti pettegolezzi. Nella Notte i due amanti si recano poi ad un ricevimento serale in casa di un’anziana dama. Qui essi non sono più al centro dell’attenzione del narratore: il suo obiettivo passa minutamente in rassegna i vari personaggi che popolano il salone, indugiando particolarmente su una serie di “imbecilli” e sulle loro sciocche manie; descrive poi i tavoli da gioco, dove spiccano le figure di due amanti ormai anziani, che nelle carte hanno trovato il modo di riempire il vuoto e la noia della loro relazione, da cui la passione è ormai svanita.

In queste due ultime parti del Giorno la polemica antinobiliare si fa più tenue e sfumata. Permane immutata la condanna di una classe oziosa e improduttiva; resta parimenti l’impianto ironico, che mira a far risaltare il vuoto e la superficialità di quell’ambiente attraverso la sua antifrastica celebrazione; tuttavia l’ironia perde le punte più risentite dello sdegno morale e il sorriso si fa meno mordace.
Qui dominano la commedia mondana, la satira di costume che si concentra sui passatempi insulsi degli aristocratici oziosi, sulle schermaglie amorose tra il “giovin signore” e la sua dama o tra i due amanti ormai attempati. Si introducono così note nuove, come la malinconia, il senso del declinare dell’età, dello svanire della bellezza e della forza vitale: l’aspro spirito polemico cede ad un atteggiamento di pensosa contemplazione, quasi priva di acrimonia, e semmai pervasa di pietà.
Parallelamente all’attenuarsi della polemica civile si rafforza il vagheggiamento affascinato del lusso, della grazia, dell’eleganza, degli aspetti esteriormente splendidi. Venendo a mancare una forte spinta politica e civile, sembra anche scomparire, dal Vespro e dalla Notte, la volontà pedagogica e correttiva, il proposito di educare e rigenerare una classe in decadenza. Traspare da questi versi il senso del fallimento del programma illuministico e riformistico, un clima di sfiducia. E d’altronde, quando Parini li scriveva, era già intervenuta la Rivoluzione francese a segnare la fine del mondo nobiliare.

Pubblicato da bmliterature

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