La vita di Dante Alighieri

Dante AlighieriDante nacque a Firenze nel 1265 da una famiglia della piccola nobiltà cittadina di parte guelfa (anche se oggi l’appartenenza degli Alighieri all’aristocrazia, vantata da Dante stesso, è messa in dubbio dagli storici, in quanto non si trovano conferme nei documenti del tempo). La famiglia era in condizioni economiche poco felici, ma Dante poté in giovinezza condurre la vita da gentiluomo e procurarsi una raffinata educazione. Non abbiamo notizie certe sulla sua prima formazione. Egli stesso, nel canto XV dell’Inferno, presenta con grande devozione Brunetto Latini come suo maestro. Può darsi che da lui avesse appreso la retorica, l’arte del ben parlare e dello scrivere elegante, indispensabile per chi volesse partecipare alla vita pubblica cittadina; ma può anche avere tratto esempio dalle opere di Latini, il Trésor e il Tesoretto, per una poesia di tipo dottrinale e didascalico. Accanto agli interessi dottrinali, si manifestò presto la vocazione alla poesia. Come egli stesso ci dice nella Vita nuova, imparò da sé <<l’arte di dire parole per rima>>, leggendo i poeti provenzali, i siciliani, Guittone, Guinizzelli, subendo anche l’influenza dell’amico Cavalcanti, più anziano di lui. La sua esperienza intellettuale e sentimentale di questi anni giovanili si compendia intorno alla figura di una donna, che egli chiama Beatrice, e che si carica di complessi significati, restando poi il cardine di tutto il suo percorso successivo.
La morte di Beatrice, nel 1290, segna per Dante un periodo di smarrimento, ma costituisce anche lo stimolo ad uscire dal mondo chiuso e rarefatto dello Stilnovismo, ad ampliare i suoi orizzonti culturali e a stabilire un rapporto con la realtà della vita civile e politica. Innanzi tutto, per trovare conforto al dolore per la morte della <<gentilissima>>, si rivolge agli studi filosofici, provandone tanto entusiasmo che l’amore della filosofia <<cacciava e distruggeva ogni altro pensiero>>. Al tempo stesso approfondisce la sua cultura poetica leggendo i poeti latini, in particolare Virgilio, che considera il suo <<maestro>> e il suo <<autore>>, poi Ovidio, Lucano, Stazio; riscopre inoltre i grandi  poeti provenzali, soprattutto il caposcuola del trobar clus, della poesia astrusa e raffinata, Arnaut Daniel; ma al tempo stesso si accosta anche alla poesia burlesca e realistica.

Firenze di DanteA partire dal 1295, a queste esperienze culturali si aggiunge quella politica. Nel 1293 Giano della Bella, con i suoi Ordinamenti di giustizia, aveva escluso la nobiltà cittadina dalle cariche pubbliche; nel 1295 il provvedimento fu poi attenuato e fu consentito ai nobili di ricoprire cariche, purché fossero iscritti ad una corporazione. Dante entrò nell’Arte dei Medici e Speziali (allora erano stretti i rapporti tra filosofia e scienze naturali), e negli anni successivi ricoprì varie cariche, finché, nel bimestre 15 giugno-15luglio  1300, fu eletto tra i Priori, la suprema magistratura cittadina.
Era quello un periodo difficile per il Comune fiorentino, lacerato fra le fazioni dei Guelfi bianchi e dei Guelfi neri e minacciato nella sua autonomia dalle manovre del papa Bonifacio VIII, che, approfittando del fatto che gli imperatori di Germania si disinteressavano dell’Italia, mirava ad imporre il dominio della Chiesa sulla Toscana. Dante aveva a cuore sia la pace interna sia l’autonomia esterna del Comune, e si adoperò con ogni mezzo per ristabilire la concordia fra i cittadini e per contrastare i maneggi del papa. Per questo, pur essendo al di sopra delle parti, fu più vicino ai Bianchi, che difendevano la libertà di Firenze, mentre i Neri appoggiavano sempre più scopertamente la politica di Bonifacio VIII. Il legato pontificio Carlo di Valois, mandato col pretesto di far da paciere tra le due fazioni, favorì invece i Neri, e questi nell’autunno del 1301 si impadronirono di Firenze, scatenando le persecuzioni contro la parte sconfitta. Dante in quel momento non si trovava a Firenze, poiché era stato inviato a Roma come ambasciatore. E probabilmente a Siena, nel gennaio 1302, apprese di essere stato condannato all’esilio con l’accusa di baratteria (cioè di corruzione nell’esercizio delle cariche pubbliche). Non essendosi presentato per discolparsi, due mesi dopo un’altra sentenza lo condannava al rogo.

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Incominciò così l’esperienza dell’esilio. Nei primi tempi Dante non rinunciò alla speranza di ritornare in patria e si unì agli altri esuli Bianchi. Ma dopo un tentativo di rientrare con la forza, fallito miseramente, egli si sdegnò contro la <<compagnia malvagia e scempia>>, e preferì <<far parte per se stesso>>. Ebbe allora inizio il suo pellegrinaggio per varie regioni italiane. La sua funzione era quella di uomo di corte presso signori magnanimi (di ascendenza feudale come i marchesi Malaspina di Lunigiana, o signori cittadini come gli Scaligeri di Verona e i Da Polenta di Ravenna), che ospitavano uomini di cultura per ricavarne lustro e prestigio, ma anche per servirsene per vari compiti, come le funzioni di segretario ed ambasciatore. E’ comprensibile perciò come Dante, che era il tipico intellettuale-cittadino, inserito nella vita di un libero Comune, fiero del proprio valore e geloso della propria autonomia, dovesse soffrire dell’umiliante condizione di dover ricorrere alla generosità altrui per vivere e di dover assoggettare ad altri la propria attività intellettuale. A Firenze, dove aveva lasciato <<ogni cosa diletta più caramente>>, rivolgeva sempre il pensiero, e tale nostalgia affiora frequentemente dalle sue opere. Accarezzava così il sogno di tornare al <<bell’ovile>> dove aveva <<dormito agnello>>, non solo per essere riscattato da ogni accusa infamante, ma anche per ricevere il giusto riconoscimento del suo valore.
Frattanto però l’esilio valeva ad allargare ulteriormente i suoi orizzonti da Firenze all’Italia e al mondo intero. Lo spettacolo delle città italiane lacerate da lotte civili, sopraffazioni e violenze, pervase solo dalla cupidigia di denaro e dallo spirito affaristico, il quadro di una Chiesa mondanizzata e corrotta, i cui membri, invece di guidare il loro gregge, si trasformavano in <<lupi rapaci>>, lo inducevano a ricercare la <<cagion che il mondo ha fatto reo>>. Ed egli credette di individuarla nell’assenza di un imperatore, che si ponesse come supremo regolatore della vita civile, facendo rispettare le leggi ed obbligando così la Chiesa a tornare alla sua missione spirituale. Fu convinto allora di essere investito da Dio della missione di indicare all’umanità le cause della sua abiezione e di condurla sulla via del riscatto. Da questa vocazione profetica nacque il disegno della Commedia, alla quale lavorò per quasi tutti gli anni dell’esilio.
Nel 1310 il suo sogno di una restaurazione del potere imperiale, che sanasse tutti i mali presenti nel mondo, parve doversi tradurre in realtà: il nuovo imperatore, Enrico VII di Lussemburgo, scendeva in Italia per essere incoronato, con il consenso del papa Clemente V. Ma ben presto le illusioni del poeta svanirono di fronte alla condotta ambigua del papa, alla resistenza delle città italiane ed infine alla morte dell’imperatore, avvenuta nel 1313. Frattanto erano svanite anche le ultime speranze di un ritorno in patria: nel 1315 Dante rifiutò sdegnato un’amnistia che aveva come prezzo il riconoscimento della propria colpevolezza ed un’umiliazione pubblica. Negli ultimi anni visse a Ravenna, presso i Da Polenta, circondato ormai dalla fama di altissimo poeta. A Ravenna, di ritorno da un’ambasceria a Venezia, morì il 14 settembre del 1321.

Pubblicato da bmliterature

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