L’arretramento dell’Italia nel Seicento

Una crisi generalizzata e le sue ragioni

Stemmi di alcune corporazioni della città di Orvieto, XVII secolo; Orvieto, Duomo.
Stemmi di alcune corporazioni della città di Orvieto, XVII secolo; Orvieto, Duomo.

Il XVII secolo segnò, per l’Italia, una fase di chiara decadenza. La crisi era anzitutto politica, legata cioè alla perdita d’indipendenza. Il potere era in mano alla Spagna, che occupava direttamente Milano, il Meridione e le isole, ma che faceva sentire la propria influenza anche sugli altri stati della penisola.
Anche l’economia era in crisi, e ciò contrastava con la realtà di un paese ricco di cultura e di tradizioni. Il lavoro degli italiani continuava infatti a essere molto apprezzato per le professioni più qualificate: artigiani e operai specializzati, architetti, ingegneri, giuristi, medici, artisti, gente di teatro, istitutori (gli insegnanti dei figli dei ricchi) erano molto richiesti all’estero, e trovavano occasioni di lavoro in Francia, Germania, Austria e persino nella lontana San Pietroburgo. Ma nella penisola la situazione economica era preoccupante, per più fattori.
In primo luogo, la scoperta dell’America e delle nuove rotte oceaniche aveva spostato l’asse dei commerci internazionali dal Mediterraneo all’Atlantico. Se un tempo i traffici con il Vicino Oriente erano determinanti, essi risultavano adesso secondari rispetto alle vie di scambio con le Americhe e con l’Estremo Oriente. Le antiche città marinare italiane persero la loro centralità a beneficio dei porti olandesi, inglesi e francesi sul Mare del Nord e sull’Atlantico.
Al crollo del commercio internazionale si accompagnò anche la crisi delle attività a esso collegate, ovvero le assicurazioni e le banche. Solo i banchieri genovesi rimasero competitivi e continuarono a prestare denaro all’estero; per il resto, le grandi compagnie commerciali sorte in Olanda, Inghilterra e nell’area baltica portarono i banchieri italiani a un ruolo del tutto secondario.Un serio ostacolo per l’economia furono anche le pesanti tasse imposte dagli spagnoli, che colpirono con particolare durezza il Meridione. Ma forse più grave risultò l’incapacità di mercanti e produttori della penisola di rinnovarsi e a stare al passo con i tempi. L'italia del SeicentoVa notato che in Italia sopravvivevano ancora, nel Seicento, le vecchie arti e corporazioni che tre o quattro secoli prima avevano garantito una più efficiente organizzazione del lavoro e costituito, quindi, un dinamico fattore di progresso. Ora invece questi organismi (i “sindacati” dell’epoca) finivano per ostacolare i nuovi produttori che volevano entrare nel mercato; non solo, ostacolavano molte innovazioni tecniche necessarie a una migliore produttività delle manifatture italiane.
Tutto ciò frenò lo sviluppo dell’Italia proprio nell’epoca in cui altri stati europei si sforzavano di migliorare le proprie manifatture e i propri commerci.
Ad aggravare la situazione generale furono anche i danni provocati dalla guerra dei Trent’anni, che infuriò in Lombardia, oltre alle epidemie di peste, che infestarono il Nord della penisola nel 1630-31 e il Sud nel 1656-57.
Il risultato fu questo: fino a metà Cinquecento la penisola era stata un paese sviluppato, esportatore di beni “ricchi” (prodotti delle manifatture, servizi delle banche, assicurazioni, trasporti di merci); nel giro di un secolo essa si ridusse a esportare beni “poveri”, cioè materie prime e prodotti dell’agricoltura. Solo sul finire del Seicento si registrarono segnali di ripresa, poi consolidati nel corso del Settecento.

Il dominio spagnolo su Milano e sul Meridione

Masaniello.
Masaniello.

I dominatori spagnoli portarono in Italia una mentalità orgogliosa e aristocratica, che sviliva ogni attività volta al lavoro o al guadagno. Perciò favorirono i nobili e i proprietari terrieri, a svantaggio della borghesia, costituita da mercanti e produttori. Fu così che la società italiana, tanto dinamica e vivace nei secoli precedenti, divenne passiva e improduttiva.
Tuttavia la Spagna si comportò diversamente nei territori dominati direttamente, cioè Milano e Napoli. La Lombardia era infatti considerata un territorio strategico, per la sua posizione di confine, contro francesi e austriaci. Dunque il governo spagnolo sul Ducato di Milano fu prudente, allo scopo di mantenere buoni rapporti con la classe dirigente locale. L’imposizione fiscale ci fu, ma non risultò eccessiva.
I nobili e gli imprenditori continuarono a impiegare i loro capitali in investimenti agricoli e manifatturieri: introdussero nella pianura padana nuove colture, come il mais, il riso e il gelso, le cui foglie servono da nutrimento per i bachi da seta (necessari, a loro volta, per l’industria serica). In molti centri, inoltre, furono impiantate manifatture per la produzione di tessuti meno costosi, stoffe di lino e fustagni di cotone. In tal modo il Ducato di Milano godette di una discreta prosperità e anche di una ripresa economica sul finire del secolo.
Diversa la situazione del Mezzogiorno, i cui territori (Sicilia, Sardegna, Vicereame di Napoli) appartenevano direttamente alla Spagna: essa considerava il Sud d’Italia alla stregua di una colonia, da sfruttare senza ritegno. Tasse gravose colpivano sia le attività economiche, sia i generi alimentari di più largo consumo (pane, vino, frutta).
In più occasioni il popolo, esasperato, si ribellò. La rivolta più nota scoppiò a Napoli nel 1647, capeggiata da un pescivendolo, Tommaso Aniello, detto Masaniello. L’insurrezione dilagò anche nelle campagne e continuò per diversi mesi, anche dopo la morte di Masaniello, fino a che non venne soffocata nel sangue. Altri tumulti ebbero luogo in Sicilia, a Palermo e a Messina, e si conclusero nello stesso modo.
Gli spagnoli si appoggiavano soprattutto alla nobiltà feudale (i “baroni”), lasciandole mano libera perché si arricchisse ai danni dei sudditi e imponesse un potere arbitrario. Si sviluppò così ancora di più il sistema del latifondo, basato su enormi proprietà terriere, lavorate da miseri braccianti e prive di cura, investimenti, sfruttamento intensivo dei suoli.
Lo strapotere dell’aristocrazia bloccò la nascita di una classe borghese produttiva: alla lunga sarà questa la prima ragione di ritardo economico e sociale del Sud rispetto ad altre regioni d’Italia.

Pubblicato da bmliterature

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