Petrarca – Le opere Religioso-Morali

Francesco_Petrarca00IL MODELLO DI AGOSTINO
La parte di gran lunga maggiore dell’opera petrarchesca è in latino; in volgare egli scrisse soltanto il Canzoniere e i Trionfi. La vastissima produzione latina può essere suddivisa in due gruppi di opere, quelle religioso-morali e quelle “umanistiche” (ma è una distinzione puramente esteriore e di comodo, come avremo modo di verificare, in quanto i tratti comuni, sul piano delle tematiche come dello stile, sono moltissimi).
Senza osservare strettamente l’ordine cronologico, può essere utile partire da due opere di polemica filosofica, scritte nella maturità, che forniscono la chiave per capire la visione del mondo su cui Petrarca fonda tutta la sua attività di scrittore: le Invectivae contra medicum quendam (Invettive contro un medico, 1352-55) e De sui ipsius et multorum ignorantia (Sull’ignoranza propria e di molti altri, 1367-70). In esse Petrarca esprime il suo profondo fastidio per la filosofìa scolastica, che aveva costituito il più poderoso sforzo di sistemazione concettuale del Medio Evo. Per lui la vera filosofia non è quella che, seguendo l’aristotelismo, presume di catalogare nei suoi schemi astratti e aridi tutte le manifestazioni della realtà, della natura come di Dio stesso, ma quella che mira a comprendere l’uomo, a esplorare la sua interiorità per insegnargli a sopportare le miserie della sua esistenza e indicargli la via dell’autentica felicità e della salvezza.
Non all’insegnamento di Aristotele e di san Tommaso guarda Petrarca, ma semmai a quello più inquieto di sant’Agostino, che aveva proclamato che «la verità abita nell’interiorità dell’uomo». Tra Dante e Petrarca corre solo lo spazio di una generazione, ma le due esperienze intellettuali sono divise da una distanza incolmabile. Dante, come si è visto, poneva alla base della sua visione del mondo proprio la filosofia scolastico-aristotelica e da essa essenzialmente traeva quell’incrollabile fede in un ordine perfetto che racchiudesse tutte le manifestazioni della realtà. In Petrarca la fede dantesca è venuta meno, e con essa anche la certezza di poter dominare la realtà con rigorosi schemi concettuali. Perciò egli rinuncia ad affrontare il mondo esterno nella sua concretezza e nella molteplicità dei suoi aspetti e si rinchiude esclusivamente nella contemplazione del proprio io, nell’analisi delle proprie inquietudini e delle proprie contraddizioni interiori.

IL SECRETUMAntonello_da_Messina_009
Questo continuo esame di coscienza si traduce in primo luogo nelle opere di meditazione religiosa e morale. La più importante è il Secretum (il titolo completo è De secreto conflictu curarum mearum, Il segreto conflitto dei miei affanni), concepito probabilmente nel ’42-’43, all’epoca in cui aveva toccato il culmine la crisi religiosa del poeta, ma ripreso e rimaneggiato successivamente, forse nel 1353. L’opera, divisa in tre libri, è strutturata come un dialogo tra Francesco stesso e Agostino, il santo e filosofo che Petrarca considerava la sua autentica guida spirituale.
Il dialogo si svolge in tre giorni alla presenza di una donna bellissima, figurazione allegorica della Verità, che non prende mai la parola (l’impostazione allegorica denunzia chiaramente il permanere in Petrarca di schemi della cultura medievale). Nel dialogo lo scrittore si sdoppia in due personaggi che sono entrambi proiezioni della sua interiorità inquieta e lacerata. Agostino rappresenta l’istanza superiore della coscienza, che fruga nell’animo di Francesco, smonta implacabilmente le sue giustificazioni speciose e i suoi alibi morali, per portare alla luce la verità, spesso sgradevole; Francesco rappresenta la fragilità del peccatore, disposto a imparare ma anche riluttante a staccarsi dalle lusinghe mondane e dai beni che gli sono più cari.
Nel primo libro Agostino rimprovera a Francesco la debolezza della volontà, che gli impedisce di tradurre in atto le sue velleitarie aspirazioni ad una vita più pura e virtuosa. Nel secondo libro passa in rassegna i sette peccati capitali e si sofferma su quello che più gravemente affligge Francesco, l’accidia, una sorta di inerzia morale, di languida debolezza del volere, che annulla ogni possibilità di scelta e di azione e getta l’animo in una tristezza perenne. Ma due sono le colpe più gravi, esaminate nel terzo libro: il desiderio di gloria terrena, che distoglie il pensiero dalle cose eterne, e l’amore per Laura. Per Francesco si tratta di inclinazioni innocenti, mentre per Agostino sono le più basse passioni. In particolare Francesco si inganna nel ritenere che l’amore per Laura sia stato spirituale e fonte di virtù; al contrario, dimostra Agostino, da esso ha avuto inizio la sua degradazione morale.
Il dialogo è tutto pervaso da un ansioso bisogno di raggiungere, mediante il lucido esame di coscienza, la pace interiore, ma quando si conclude tutte le contraddizioni del poeta restano aperte: Francesco non giunge ad un saldo proposito di cambiar vita; anche se vorrebbe farlo subito, riconosce che non può vincere la sua natura. A differenza del suo maestro Agostino, che nelle Confessioni ha delineato il passaggio dal peccato alla purificazione, Petrarca non riesce, al termine del travagliato percorso del Secretum, ad approdare ad un’autentica e definitiva conversione. In ciò si può di nuovo misurare la distanza che separa l’esperienza spirituale di Petrarca da quella di Dante. Petrarca non riesce più a delineare l’esemplare vicenda dell’anima che, dalla «selva» del peccato, attraverso il pentimento e la purificazione riesce a giungere alla pace e alla salvezza. Dal suo orizzonte sono escluse le soluzioni definitive, le salde e confortanti certezze: Petrarca è ormai l’uomo della crisi.
Tale crisi non è solo un dato biografico individuale, limitato alla persona di Petrarca, ma assume un più vasto significato storico. Il dissidio sempre aperto tra il richiamo dell’ascesi e gli allettamenti della realtà mondana, la nostalgia di un totale annegamento in Dio, sentito ormai come impossibile, e d’altro lato l’incapacità di aderire senza sensi di colpa, con atteggiamento interamente laico, ai valori terreni, fanno di Petrarca il rappresentante emblematico di un’età di trapasso, che vede il disgregarsi della spiritualità medievale ma è ancora lontana dall’assestarsi entro i confini di una civiltà nuova, quella umanistico-rinascimentale.
Questo travaglio spirituale, che sostanzia intimamente l’opera, non si riflette però nella sua tessitura stilistica. Il latino del Secretum non è tormentato e contorto come la vicenda che deve esprimere, ma è limpido, armonioso, strutturato sintatticamente sull’esempio dei classici; e di citazioni dai classici sono continuamente punteggiate queste pagine. Il modello degli antichi consente a Petrarca di osservare i suoi processi interiori con sguardo lucido e sicuro e di esprimerli con ferma chiarezza. Se dunque egli non giunge a dare una soluzione reale ai suoi conflitti, riesce però a comporli formalmente nel nitore della bella pagina: nella forma letteraria si trova quella catarsi che sul piano morale appare irraggiungibile. La fede nei valori della cultura classica gli consente una forma di superamento del dissidio e gli fornisce un centro stabile, intorno a cui organizzare le forze disperse del suo animo.

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ALTRE OPERE RELIGIOSO-MORALI
Questa tendenza alla conciliazione tra cultura classica e spiritualità cristiana è confermata dalle altre opere religioso-morali di Petrarca. Ad esempio il De vita solitaria (La vita solitaria), scritto nel 1346, pochi anni dopo il Secretum, esalta la solitudine, che è un tema caro all’ascetismo cristiano, ma per Petrarca essa deve essere qualche cosa di diverso dalla rigida solitudine dei monaci e degli eremiti: deve essere rallegrata dalle bellezze della natura, dalla conversazione con pochi ed eletti amici, ma soprattutto dalla presenza dei libri, perché «senza il conforto delle lettere la solitudine è esilio, carcere, tormento; al letterato invece è patria, libertà, diletto». La solitudine può essere fonte di purificazione interiore mediante la meditazione e la preghiera, ma anche di elevazione dell’animo mediante lo studio dei classici e l’esercizio della poesia. Tra la cultura classica e la religiosità cristiana non vi è per Petrarca alcun contrasto: anzi, la saggezza che si trova nei libri antichi non è che un’anticipazione di quelle verità che saranno poi consacrate dal cristianesimo; perciò le massime degli antichi scrittori (Petrarca guarda soprattutto a quelli di ispirazione stoicheggiante, come Cicerone e Seneca) possono confortare e guidare anche l’animo del cristiano.
In questa esaltazione della solitudine occupata dall’esercizio letterario, che innalza lo spirito e lo prepara alla meditazione religiosa, si conciliano così l’ideale cristiano della rinuncia ai piaceri mondani e quello classico dell’otium letterario, a cui si è già accennato (► I viaggi e la chiusura nell’interiorità). In certo qual modo Petrarca, consapevole che per lui l’ideale assoluto di un’eroica ascesi è irraggiungibile, ripiega verso un ideale più modesto e praticabile, la vita appartata e tranquilla del letterato, che non contraddice la religione, perché l’attività intellettuale è un modo per migliorare se stessi, e non distoglie dalla perfezione cristiana, ma va nella stessa direzione, costituendo un avviamento ad essa. Per queste posizioni di Petrarca si è parlato di un umanesimo cristiano.

Pubblicato da bmliterature

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