Divina Commedia, Inferno, Canto VI – Dante Alighieri (Analisi del Testo)

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Inferno canto VI: POESIA e PARAFRASI

Luogo: cerchio III;Custode: Cerbero;
Peccatori: golosi;
Pena: nel fango fetido, sotto una sudicia pioggia;

ANALISI DEL TESTO:

Il canto VI (e terzo cerchio) vede Dante risvegliarsi (dopo lo svenimento del canto precedente) in mezzo ai peccatori di gola. Cade su di essi una pioggia putrida, accompagnata da neve e grandine; il terreno è trasformato in una fetida poltiglia, in cui i golosi si rotolano come maiali nel trogolo (il contrappasso qui è lampante). Per di più, il demone guardiano del cerchio, Cerbero, li scortica e lacera con i suoi artigli: i disgraziati urlano come cani. È una situazione di abbrutimento degradante: Dante stesso commenta che all’Inferno ci potranno essere pene più dolorose di questa, ma non altrettanto repellenti. Eppure, questo è il canto in cui Dante fa emergere per la prima volta una tematica alta e centrale del suo poema: quella politica. L’occasione è l’incontro con Ciacco, un cittadino fiorentino a quanto pare noto per la smodatezza bestiale del suo mangiare e bere, ma con il quale Dante scambia un dialogo improntato a una seria e grave considerazione del degrado morale e politico della loro città. Già Ciacco, presentandosi, punta il dito sull’odio intestino che sta consumando Firenze; Dante, dal canto suo, gli chiede quale destino aspetta questa città così lacerata da avversi partiti, se in essa c’è ancora qualche persona onesta e qual è la ragione prima di questa patologica discordia che sembra avere attaccato Firenze. Ciacco dà le sue risposte, che comprendono, fra l’altro, una prima previsione degli eventi del biennio 1300-1302, decisivo anche per la vita del poeta stesso (sono gli anni del suo priorato e dell’esilio). Ma al di là delle specifiche risposte di Ciacco, colpisce in questo canto l’appassionata preoccupazione dei due fiorentini dialoganti, il goloso e il poeta, per le sorti di una città che pare ormai oltre ogni possibilità di riscatto ai fini di un pacifico vivere civile. Anche quando Dante s’informa sulla sorte ultima di illustri fiorentini della generazione precedente, la risposta che ne ricava è scoraggiante: essi sono fra le anime più nere, giù nel fondo dell’Inferno. È la prima volta che si parla, in questo primo canto “politico” della Commedia, di Firenze, e ne esce già un’immagine conturbante, spietatamente negativa. Ed è un peccatore di gola che pronuncia queste sentenze di condanna morale sui vizi della sua città: forse per una residua nobiltà morale che ancora brilla nella sua vita debosciata; forse perché Dante vuole proprio marcare polemicamente il contrasto tra un vizio come la gola, individuale e privato (per quanto possano esserlo i peccati per un cristiano), e i vizi eminentemente distruttivi del vivere civile (secondo la diagnosi di Ciacco): ira, invidia, avarizia.

E’ la seconda volta che Dante si ritrova in un cerchio infernale, senza sapere come ci sia arrivato. Tuttavia, il passaggio fra la riva d’Acheronte e il Limbo (ovvero, tra canto III e IV) lo aveva portato sull’orlo dell’abisso, soltanto nei pressi del primo cerchio; adesso invece il passaggio fra secondo e terzo cerchio (e fra canto V e VI) lo fa risvegliare nel bel mezzo della punizione inflitta ai nuovi dannati. È una scena frastornante. Dovunque Dante si volga, o guardi, novi tormenti e novi tormentati; dall’alto si rovescia, per l’aria fosca dell’Inferno, una pioggia maledetta, gelida, pesante, immutabile; perché anch’essa, come la bufera infernal, che mai non resta del girone di Paolo e Francesca, non è un fenomeno meteorologico normale, ma è una pioggia “metafisica”, l’espressione eterna della giustizia divina. E non è solo pioggia: vengono giù anche grandine, acqua sudicia e neve, in una poltiglia di cui il terreno s’imbeve, dando luogo a un fango puzzolente.
È, lo vedremo subito, il cerchio dei golosi: gaudenti in vita, amanti di prelibatezze e di ricercatezze culinarie, e qui condannati a sottostare al disagio di una meteorologia inclemente, al puzzo della fanghiglia in cui si rotolano vanamente in cerca di sollievo. Come maiali nel trogolo: ecco ancora una volta l’esattezza del contrappasso, in questo caso per analogia con il peccato commesso. I golosi, in effetti, si abbuffarono nel cibo e nei piaceri della tavola come maiali; e quasi in maiali, infatti, li metamorfosa adesso la punizione divina, che come sempre smaschera brutalmente il cuore immorale dell’esistenza dei dannati. Resta da aggiungere che il peccato di gola è forse, per noi moderni, uno dei più lontani dalla nostra mentalità e uno dei più difficili da capire. Davvero mangiare troppo è crimine così terribile? Davvero non mantenere una dieta equilibrata spiace così tanto a Dio e alla sua giustizia? Non potrebbero essere considerate punizioni sufficienti quelle a cui i golosi erano (e sono) sottoposti in vita (ipertensione, obesità, gotta e via dicendo)? In realtà l’importanza morale del peccato di gola possiamo capirla se cerchiamo di immaginarci un mondo, quello di Dante, in cui il cibo è preoccupazione quotidiana dominante (e il suo spreco, quindi, scandaloso); in cui la condivisione del pane col povero è imperativo di carità urgente (e l’egoismo della pancia del singolo, di conseguenza, offensivo); in cui, infine, la Chiesa prescrive minutamente digiuni e astinenze come parte integrante della vita spirituale dei fedeli (e in cui la loro inosservanza è considerata peccato mortale). Nel Medioevo delle carestie e della fame, delle utopie pauperistiche che sognano un ritorno alla povertà evangelica, della “dieta” come governo dell’anima, la gola può ben essere considerata un peccato, e dei più grandi.

Davanti a Dante si para il guardiano di questo cerchio, Cerbero. Ormai siamo abituati a queste figure della mitologia classica, che Dante trasforma in mostri demoniaci, non di rado intervenendo anche sul loro tradizionale aspetto fisico. In questo caso Cerbero, il terribile cane trifauce che gli antichi (anche Virgilio) avevano messo a guardia dell’Averno pagano, riceve da Dante un trattamento che, mentre ne accentua grottescamente i tratti mostruosi, vi insinua nuovi, disturbanti, dettagli antropomorfi. Così il Cerbero di Dante è una fiera… diversa, cioè “strana”; ha le sue solite tre gole con cui latra a mo’ di cane, assordando i poveri peccatori che lì giacciono, prostrati nella fanghiglia (più avanti si dirà che il suo abbaiare rintrona talmente le anime, che vorrebbero esser sorde); ma ha anche qualcosa di umano, come gli occhi iniettati di sangue, una barba unta e schifosamente sporca, un ventre largo e mani (mani, non zampe…) artigliate, con cui infierisce sui dannati. Insomma, un puzzle: e come Minosse traeva il suo aspetto inquietante dall’immensa coda che Dante aveva aggiunto alla figura umana dell’antico giudice di Creta, così qui in Cerbero inquietano e disturbano i tratti umani contaminati con il tradizionale aspetto animalesco del guardiano d’Averno. Monstra, appunto: creature oscuramente metamorfiche, in cui il confine tra l’umano e il bestiale non è più afferrabile con chiarezza, e ci disorienta.
Intanto ai latrati di Cerbero si uniscono, in un assordante unisono canino, le grida dei dannati, che pure urlano come cani, tormentati dalla pioggia incessante; si girano ora su un fianco ora sull’altro, nell’inutile ricerca di qualche sollievo.

Appena Cerbero scorge i due nuovi arrivati, allora sì che spalanca le tre gole e mostra le zanne, tutto fremente alla vista di una nuova preda! E qui Dante si toglie la soddisfazione di un bellissimo tratto di intertestualità. Nel senso che egli istituisce fra il suo testo e un altro testo poetico – in questo caso l’Eneide – una connessione, un intreccio tematico e formale particolarmente significativo. Già nel libro VI del poema virgiliano, infatti, Cerbero si era parato dinnanzi a Enea e alla sua guida, la Sibilla, ostruendo l’entrata d’Averno e latrando minacciosamente: lì la situazione era stata risolta quando la Sibilla aveva gettato nelle fauci del mostro una focaccia impastata di miele ed erbe soporifere; Cerbero l’aveva trangugiata ed era caduto addormentato. Qui Dante immagina qualcosa di simile: ma la sua guida non trae fuori focacce, bensì raccatta da terra un po’ di quella sozza fanghiglia e la getta nelle gole del mostro. L’effetto è lo stesso, o almeno simile: il Cerbero dantesco non si addormenta, ma si impegna ad addentare il suo pasto con tale cieco accanimento da lasciar passare senza danno i due visitatori. Dante, dunque, “riscrive” l’episodio virgiliano: ma il fango al posto della focaccia accentua l’aspetto degradato, fisicamente ributtante, della situazione dantesca; sottolinea grottescamente l’insana stupidità de lo demonio Cerbero; e, infine, fa compiere il gesto della Sibilla proprio all’autore dell’Eneide, quasi facendogli recitare una parte che egli, per primo, aveva già scritto.

Liberatisi da Cerbero, Dante e Virgilio cominciano a camminare attorno al cerchio dei dannati. È una strana, quasi surreale, passeggiata, perché il terreno è così ingombro e coperto di anime che ai due visitatori non resta che calpestarle; e siccome queste anime sono dotate di corpi fittizi, che mantengono le fattezze originarie, ma sono «vani», cioè vuoti e penetrabili, bisogna immaginare che Dante e Virgilio affondino i piedi su di loro. È la condizione delle “ombre” dell’aldilà pagano: anche nell’Eneide, quando Enea incontra il padre Anchise nei Campi Elisi e cerca di abbracciarlo, le sue braccia fendono l’aria, passando attraverso l’ombra del morto. In Dante però la situazione si complica. Queste ombre, o corpi fittizi, sono infatti creazioni provvisorie, misteriosamente fornite alle anime dei morti dalla giustizia divina: come sono fatte, inutile chiederselo, come dirà Virgilio in Purgatorio III, vv. 31-33: A sofferir tormenti, caldi e geli /simili corpi la Virtù dispone / che, come fa, non vuol ch’a noi si sveli. Il loro scopo tuttavia è chiaro: i corpi fittizi sono creati apposta per patire (all’infemo), scontare la penitenza dovuta (in Purgatorio) e gioire (in Paradiso). Come si vedrà alla fine di questo canto, dopo il giudizio universale le anime riprenderanno i loro corpi autentici, risorti, e questi involucri provvisori non avranno evidentemente più scopo. La diversa cornice teologica cambia del tutto il senso di queste “ombre” rispetto al mondo antico. Lì esse rappresentavano l’unica forma di sopravvivenza – impallidita e diminuita – che era concessa ai trapassati. In Dante, invece, esse sono una sorta di “clone”, temporaneo e funzionale, del corpo vero. Il che significa che, in un certo senso, Dante incontra, nel suo viaggio, nient’altro che una sterminata folla di replicanti.

Ecco che in mezzo alla folla di anime prostrate a terra, una improvvisamente si alza di botto, appena vede Dante e Virgilio passarle davanti. È l’anima di un fiorentino che ha riconosciuto Dante come suo concittadino, e tanto è bastato a strapparlo alla sua prostrazione. «Guarda se mi riconosci: dopo tutto noi due siamo vissuti, per un po’, nello stesso lasso di tempo.» Dante guarda, ma non lo riconosce: «Può darsi che la sofferenza che tu qui patisci ti abbia così sfigurato da renderti irriconoscibile, ma mi sembra proprio di non averti mai visto. Dimmelo tu chi sei, condannato in questo modo, a una pena tale che ce ne saranno anche altre più dolorose, ma nessuna così repellente». L’anima risponde: è un personaggio che a Firenze chiamavano “Ciacco”, condannato in questo cerchio per il peccato di gola, e lui, sciagurato, non è certo solo in questa condanna, perché tutti gli altri intorno a lui si sono resi colpevoli dello stesso vizio. Purtroppo non sappiamo con certezza chi fosse questo Ciacco; anzi, non sappiamo nemmeno se «Ciacco» sia un nome o un soprannome (forse “porco”, come volevano diversi antichi commentatori). Boccaccio ne fa il protagonista di una novella di beffa del Decamerone (IX, 8) in cui egli viene detto «uomo ghiottissimo quanto alcun altro fosse giammai», ma di pochi mezzi; peraltro, «assai costumato e tutto pieno di belli e di piacevoli motti»; una sorta di «uom di corte» ma, precisa Boccaccio, più che altro «morditore»: in conclusione, più un buffone insolente che un arguto conversatore. In realtà anche questo ci dice poco: il personaggio boccacciano è chiaramente al rimorchio di quello dantesco e non aggiunge alcuna informazione originale. Interessante è, semmai, la notizia, confermata anche da alcuni lettori contemporanei, che Ciacco sarebbe stato “uomo di corte”, ovvero uno di quei personaggi che vivevano di espedienti, parassiti delle mense signorili, benvoluti (ma talvolta detestati) per il loro spirito acuto e mordace, non di rado adoperati presso le corti del tempo come mezzani, pacieri, diplomatici ed esperti di pubbliche relazioni. Se Ciacco fosse uomo di corte, ciò potrebbe risolvere l’ambiguità del suo personaggio: un goloso e come tale un volgare gaudente dedito ai piaceri del ventre, ma insieme un moralista che, rispondendo a Dante, per indicare Firenze usa una sferzante perifrasi: «La tua città, che è così traboccante d’odio da aver ormai passato la misura…». Attacco a Firenze non richiesto, non necessario e quasi fuori luogo, se non in bocca a qualcuno abituato a criticare e a “mordere” i vizi per professione. Questa era, infatti, la natura degli uomini di corte: essi partecipavano alla “dolce vita” cortigiana, ma insieme potevano riprendere, anche aspramente, vizi e storture della società contemporanea, con una libertà di parola a loro soltanto accordata e riconosciuta. Dante, dal canto suo, sembra cogliere subito questa sfumatura nel modo con cui Ciacco gli si è presentato, e piega decisamente il loro dialogo in direzione morale e politica.

Dante, dopo avere espresso a Ciacco la sua solidarietà per la pena a cui è condannato e che – dice – lo commuove fino alle lacrime, gli pone tre domande: che destino aspetta i fiorentini e la loro città partita, lacerata dalle divisioni di parte? C’è rimasto, a Firenze, qualche uomo giusto? E qual è la causa della discordia che è esplosa così violentemente nella città? Ciacco replica a tutt’e tre le domande. Il destino di Firenze: un imminente scontro sanguinoso, il prevalere violento della parte selvaggia, la sua durata al potere per meno di tre anni, poi il sormontare dell’altra, con l’appoggio di qualcuno che per il momento non vuole compromettersi; quindi lunga egemonia di questa parte, che non esiterà a vessare duramente l’altra, nonostante tutte le sue rimostranze. Se c’è rimasto qualcuno giusto a Firenze: in verità ce ne sarebbero rimasti due, ma nessuno gli dà retta. La causa delle discordie fiorentine: il propagarsi di tre vizi capitali, ovvero superbia, invidia e cupidigia.
Le risposte di Ciacco contengono una profezia e due diagnosi, ma tutte tre sono rese in uno stile volutamente oracolare, oscuro, che ha dato parecchio filo da torcere agli interpreti. La profezia – che costituisce la risposta alla prima domanda di Dante – riguarda gli anni che vanno dal presente (il presente del racconto, cioè la primavera del 1300) fino al 1302: anni cruciali per la vita politica di Firenze, ma soprattutto per la biografia di Dante. Sono gli anni in cui la lotta fra i Bianchi (capeggiati dai Cerchi) e i Neri (capeggiati dai Donati) entra nella sua fase più violenta: dalla zuffa del calendimaggio del 1300, in cui per la prima volta si arrivò allo spargimento di sangue, all’esilio dei capi di ambedue le parti nel giugno del 1300, al bando della parte Nera nel 1301, che rappresentò la vittoria dei Bianchi, fino al ribaltone dell’ottobre 1301 quando i Neri, con l’appoggio di papa Bonifacio VIII, ripresero saldamente il potere a Firenze, vendicandosi duramente del partito avversario. Ciacco però tutto questo lo profetizza in modo alquanto sibillino. I Bianchi vengono indicati come la parte selvaggia, con riferimento alla loro notoria rozzezza di modi: erano d’altronde fiorentini di recente inurbati dal contado (i Cerchi, dalla Val di Sieve), spesso di umili origini ma ottimi mercanti e intraprendenti affaristi; un po’ rustici e «selvaggi» però, per i fiorentini di più antico lignaggio. I loro avversari, i Neri, Ciacco li indica ancora più vagamente: l’altra parte e basta. Il papa Bonifacio VIII che ancora nel 1300 «piaggiava», cioè fingeva di non voler prendere posizione per poi appoggiare la rivincita dei Neri, è indicato per perifrasi. Gli avvenimenti sono toccati in modo vago, come un semplice seguito di vittorie e sconfitte alternate delle parti. Ma, chiaramente, questo effetto di vaghezza è intenzionale. Qualche interprete, anche in età antica, ha pensato invece che Dante avesse scritto questi versi prima del 1301, quando ancora non poteva sapere come gli avvenimenti si sarebbero svolti e perciò li avrebbe tenuti nel vago. In realtà, la filigrana degli eventi di quegli anni senza pace è in questi versi più che leggibile; è lo stile della profezia, invece, che richiede una sorta di oscurità arcana. Ciò spiega anche perché Dante nella profezia di Ciacco ancora non compare. Eppure, sappiamo che cosa furono per il poeta gli anni 1300-1302: quelli del suo priorato, dell’ambasceria romana e della condanna all’esilio. Se Dante non ne fa parola, non è perché questi versi siano stati composti prima di quegli avvenimenti, ma soltanto perché qui si affaccia per la prima volta, nella Commedia, il tema politico ed egli ne prepara il crescendo con ammirevole misura. Per ora gli bastano questi primi oscuri accenni di Ciacco; poi, nel corso del racconto, il futuro di Firenze e quello suo personale saranno via via svelati in modo sempre più complesso, fino alla finale rivelazione di Cacciaguida, nel canto XV del Paradiso.
Le altre due risposte di Ciacco – le due diagnosi sullo stato morale di Firenze – sono, almeno in parte, ancora più oscure. Chi siano i due giusti che ancora si possono incontrare a Firenze (ma che non servono a nulla, perché nessuno li ascolta) è impossibile precisare. Quanto poi alle cause delle discordie cittadine, Ciacco fornisce sì il suo reciso parere (è colpa dei dilaganti vizi di invidia, superbia e cupidigia), ma si tratta di una risposta tipicamente moralistica che, in fondo, rifiuta di prendere posizione e di addentrarsi in un’analisi più articolata delle responsabilità e delle colpe degli individui e dei soggetti sociali.
Sia pure entro questi limiti ben precisi, e intenzionali, questo sesto canto dell’Inferno rappresenta comunque il momento in cui emerge per la prima volta, nel poema, la tematica politica. Anzi, si inaugura qui un appuntamento fisso delle tre cantiche: anche nel Purgatorio e nel Paradiso i sesti canti saranno dedicati al tema politico, e con una progressione evidente del discorso. In questo sesto canto infernale, infatti, si parla di Firenze; nel sesto del Purgatorio il tema si allargherà all’Italia tutta e nel sesto del Paradiso all’impero romano e alla sua funzione provvidenziale. Ci possiamo chiedere: perché proprio i sesti canti? Con tutta probabilità, per omaggio al canto VI dell’Eneide virgiliana, in cui Anchise mostrava al figlio la sua discendenza, offrendo un succinto quadro della futura storia di Roma e profetizzando, dunque, l’avvenire politico della missione di Enea.

La curiosità di Dante non è esaurita. Adesso, vorrebbe sapere dove si trovano, se in Paradiso o all’inferno, alcuni grandi fiorentini: Farinata degli Uberti, Tegghiaio Aldobrandi, Iacopo Rusticucci, un non meglio identificato Arrigo e Mosca dei Lamberti; tutte persone, dice Dante, che profusero il loro ingegno a ben far. Ma la risposta di Ciacco suona come una clamorosa smentita: i grandi fiorentini citati da Dante son tra l’anime più nere giù in fondo all’inferno, e infatti li ritroveremo nei gironi degli epicurei, dei sodomiti e dei seminatori di discordia. Dunque, quel ben far non era poi così buono; questi personaggi si erano spesi per finalità mondane e si erano acquistati una fama terrena brutalmente contraddetta dal giudizio divino. È ben vero che anche Dante nella sua domanda aveva previsto l’eventualità che questi personaggi fossero «attoscati» dalle pene infernali; è comunque evidente nelle sue parole il vibrare di un’ammirazione sincera nei confronti di persone di grande spessore umano e politico. D’altronde non è la prima volta che virtù mondane e virtù cristiane non vanno d’accordo: anzi, questo è uno dei temi dominanti dell’inferno dantesco. Andrà osservato, piuttosto, un dettaglio cronologico. Tutti i personaggi rammentati da Dante appartengono alla generazione a lui precedente: Farinata era morto nel 1264, il Tegghiaio prima del 1266, il Rusticucci, ancor vivo nel 1266, dovrebbe essere morto poco dopo, mentre Mosca dei Lamberti era morto nel 1243. Sembra che Dante, di fronte alla degenerazione della Firenze contemporanea, cerchi rifugio nei grandi uomini fiorentini del passato, magari anche della parte a lui avversa (come Farinata); uomini facinorosi e condannabili evidentemente, ma dotati di una magnanimità che Dante sembra negare ai concittadini del suo tempo.

Prima di tacere per sempre, Ciacco raccomanda a Dante, una volta che egli sia ritornato a casa, di ricordarlo alla gente: altrui, egli dice, che è il pronome più indeterminato possibile; come se questo goloso non avesse amicizie o affetti particolari, ma fosse vissuto sempre in pubblico, in mezzo alla gente della sua città. La quale, nonostante tutto, egli rammenta qui come dolce mondo (e prima come vita serena), introducendo una nota di struggente nostalgia nella brutalità della sua condizione e nell’asprezza tagliente dei suoi giudizi morali. Dopo di che assistiamo a un’impressionante metamorfosi: gli occhi di Ciacco, che fin qui erano stati dritti in quelli di Dante, si torcono in biechi, come se li velasse un’improvvisa opacità e una sorta di ebetudine animalesca scendesse a ottenebrargli lo sguardo. È vero che egli, concluso il dialogo con Dante, sta ripiombando giù fra i suoi compagni di sventura, non a caso qui definiti ciechi, non solo perché privi della luce della Grazia, ma perché fisicamente affondati nella sozzura di questo cerchio; l’abbrutimento dello sguardo di Ciacco sembra anticipare la loro condizione. Ed è ben vero che, lasciandosi andare a terra e continuando però a fissare Dante, lo sguardo di Ciacco può essersi «torto» di conseguenza. Ma il testo dice che gli occhi del dannato prima si torcono in biechi; poi egli si ferma a guardare Dante un momento (guardommi un poco: come se già non lo riconoscesse più); infine china la testa e si lascia cadere fra gli altri peccatori. Rimane, in questo muto congedo di Ciacco da Dante, un sospetto straziante: come se il dialogo fra i due fosse stato solo un intervallo di lucidità per un dannato ridotto in una condizione così bestiale da rasentare, quasi, la vera e propria metamorfosi animalesca.

Virgilio commenta così: «Costui, come gli altri qui in questo cerchio, non si rizzerà più in piedi prima del giorno del Giudizio, quando Cristo verrà in tutta la sua potenza a proclamare la dannazione o la salvezza finale; allora ciascuno tornerà alla sua tomba per riprendere il suo corpo risorto; tomba trista, per i peccatori, perché per loro la resurrezione sarà un evento infausto, non gioioso». L’occasione è buona per approfondire un poco questo tema della vita futura, visto anche che si è toccato il tema della resurrezione della carne mentre Dante e Virgilio stanno calpestando, nel modo che sappiamo, i corpi fittizi dei golosi. Dante chiede se le pene subiranno alterazioni di sorta, dopo il giudizio universale; Virgilio, trasformato in buon aristotelico, lo invita a richiamare alla mente la sua filosofia, che insegna come ogni cosa più è perfetta più è capace di sentire gioia o dolore. Ne segue che questi peccatori, riprendendo per loro sventura la loro carne risorta e quindi ricostituendo una qualche maggiore completezza e perfezione del proprio essere, non potranno che andare incontro a maggiori sofferenze.

Dante e Virgilio, sempre conversando (e di più cose rispetto a quelle che Dante, come al solito, abbia spazio di riportare) arrivano a un punto del cerchio dove esso digrada nel cerchio successivo (i gironi dell’inferno, infatti, scendono a spirale lungo le pareti dell’abisso). Ed ecco pararsi di fronte a loro un altro demone guardiano: Pluto, il signore delle ricchezze. Il canto (e girone) successivo ci metterà di fronte, infatti, i peccati di avarizia e di prodigalità.

Pubblicato da bmliterature

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