La marcia su Roma e la costruzione della dittatura di Mussolini

IL MOVIMENTO FASCISTA E LA LEADERSHIP DI MUSSOLINI
In breve tempo gli squadristi avevano guadagnato maggiore visibilità trasformandosi da piccola formazione di ex combattenti in un’organizzazione capace di controllare alcune importanti realtà locali, ripulendole dai comunisti e socialisti. A Ferrara e Cremona, fascisti come Balbo e Farinacci erano diventati veri e propri ras locali in grado di esercitare un potere autonomo grazie al carisma conquistato combattendo i “rossi”. Ras era un titolo attribuito ai signori feudali delle maggiori province che adesso veniva a simboleggiare i capi delle squadre d’azione fascista.
Mussolini vedeva con preoccupazione questi fenomeni perché il crescente prestigio dei ras poteva minacciare la sua leadership e ridimensionare la portata storica e rivoluzionaria del fascismo.
L’aspro dibattito all’interno dei Fasci sulla proposta del nuovo capo di governo, Ivanoe Bonomi, di un patto di pacificazione tra socialisti e fascisti per far cessare le violenze fu la dimostrazione di come Mussolini valutasse correttamente i rischi per i Fasci. Infatti, a fronte dell’apertura di Mussolini, che voleva mostrarsi come garante dell’ordine, si formò una sorta di opposizione interna formata dai dirigenti provinciali padani del “fascismo agrario”.
Alla firma del patto, dirigenti come Balbo e Farinacci respinsero la decisione e chiesero la convocazione di un congresso nazionale, sfidando l’autorità di Mussolini che si dimise dalla commissione esecutiva.

NASCE IL PARTITO NAZIONALE FASCISTA
Mussolini decise allora di forzare la mano costringendo i suoi avversari interni a uscire allo scoperto. Per fare ciò mise all’ordine del giorno la trasformazione dei Fasci in Partito nazionale fascista (Pnf). Ciò avrebbe consentito di richiamare alla disciplina le diverse parti del fascismo e di aggravare la crisi del movimento operaio e contadino.
I ras dissidenti non se la sentirono di combattere Mussolini e preferirono accettare il patto proposto dal governo. Si trattò solo di un’accettazione formale in quanto le violenze squadriste non cessarono ma aumentarono.
Il Pnf definì un programma ideologico autoritario e antisocialista. Esso prevedeva l’abbandono della pregiudiziale repubblicana, la riduzione dei poteri del Parlamento, l’instaurazione di uno stato forte, l’abolizione del diritto di sciopero nei servizi pubblici e la privatizzazione dei servizi di pubblica utilità (telefoni, poste).
In questa fase della lotta politica, Mussolini voleva una struttura politica efficace che rispettasse la sua autorità carismatica. Serviva un’organizzazione di massa radicata, con un’ideologia di riferimento salda: un partito di massa.

LA MARCIA SU ROMA
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L’anno dell’ascesa del fascismo alla conquista del potere fu il 1922. Mussolini si mostro insofferente nei riguardi di una strategia elettoralista dai tempi lunghi e dagli esiti incerti. Mussolini voleva accelerare la crisi dello stato liberale per impedire al movimento socialista di riorganizzarsi e rafforzarsi.
Quando il 1° agosto 1922 la Confederazione generale del lavoro proclamò uno sciopero generale, Mussolini decisi di far convergere sulla capitale le sue camicie nere (Milizia volontaria per la sicurezza nazionale) armate.
Gli obbiettivi erano quelli di: mostrare ai dirigenti socialisti e sindacali la forza del fascismo a non permettere un ritorno a clima del “biennio rosso”; e convincere il re Vittorio Emanuele III (nuovo re dopo l’assassinio di Umberto I) a incaricare Mussolini di formare un nuovo governo.
Il progetto aveva un punto debole: Vittorio Emanuele III disponeva della forza sufficiente per sciogliere la sedizione.
Il 28 ottobre 1922 migliaia di camicie nere marciarono verso Roma. Mussolini, non sapendo come avrebbe reagito il re, non partecipò direttamente alla marcia su Roma.
Quando si rese conto che il colpo di stato aveva avuto successo e che le milizie riuscirono ad invadere liberamente la città, Mussolini raggiunse velocemente la capitale dove ricevette l’incarico di formare un nuovo governo. Il re pensava che concedendo questa opportunità, Mussolini avrebbe smussato i caratteri anti-sistema, facendo del Pnf una forza di estrema destra, ma non più un pericolo per la stabilità dello stato. Tuttavia il calcolo del re si rivelò sbagliato e l’Italia precipitò in una lunga dittatura.

IL “DISCORSO DEL BIVACCO”
Le prime parole che Mussolini pronunciò di fronte alle Camere come presidente del Consiglio segnarono una netta rottura con la prassi liberale. Con il suo discorso diede un duplice messaggio. Agli antifascisti rivolgeva un avvertimento, ai fascisti più intransigenti dava assicurazione che la conquista del potere non avrebbe snaturato il movimento, nato per sradicare il bolscevismo e costruire uno stato forte.
Il primo elemento che risalta è l’esplicita libertà di movimento rivendicata per sé e per il fascismo senza alcun limite.
Inoltre viene a disprezzare il parlamentarismo considerato una “patologia sociale” contro gli interessi della nazione.

UN “UOMO D’ORDINE” PER UN GOVERNO DI COALIZIONE
Il primo governo Mussolini fu di coalizione, formato da fascisti, liberali di destra, nazionalisti e cattolici conservatori. Mussolini non era ancora abbastanza forte per imporre un regime a partito unico. Il fronte moderato cercava un uomo in grado di restaurare l’ordine borghese-capitalistico, ma non sembrava ancora disposto a rinunciare alla forma dello stato liberale.
A Mussolini serviva tempo per consolidare il potere fascista insediando nei ruoli di responsabilità della pubblica amministrazione e della pubblica sicurezza camerati fedeli, inasprendo la censura e delegittimando il Parlamento.
Non si trattò di un regime dittatoriale, ma era ancora uno stato autoritario nel quale le opposizioni andavano riducendosi sempre di più. La violenza fascista continuò ad essere presente. Tutti coloro che si opponevano al fascismo come il cattolico Minzoni e il liberale Amendola, vennero trucidati dalle squadriste fasciste. La violenza squadrista oltre ad essere un’arma contro il bolscevismo, divenne uno strumento politico contro le opposizioni.

I PRIMI PROVVEDIMENTI DEL GOVERNO
Il primo governo Mussolini è caratterizzato da un programma di restaurazione capitalistica e di stabilizzazione sociale. Sul piano economico il governo ridusse la spesa pubblica, abolì la tassa sui sovrapprofitti di guerra, aumentò le imposte indirette e introdusse imposte sul reddito operaio e contadino. Nonostante decise di eliminare l’interventismo statale in economia, Mussolini impiegò capitali pubblici per evitare il fallimento del Banco di Roma, guadagnandosi così la simpatia degli ambienti finanziari e di quelli cattolici, cui la banca era vicina.
Sul piano sociale, la riforma più importante fu quella della scuola, da lui definita “la più fascista delle riforme”. Venne elaborata dal ministro Gentile e prevedeva una separazione tra la cultura umanistica e quella tecnico-scientifica perché le scienze dello spirito erano indispensabili alla formazione delle classi dirigenti, le scienze della natura e quelle applicate erano utili per le classi con funzioni esecutive.
Non essendo uno stato autoritario, Mussolini continuava ad agire seguendo le norme dello Statuto Albertino. L’attività del Parlamento faceva sì che, almeno formalmente, lo stato liberale sopravvivesse ai tentativi fascisti di sovvertirlo dalle fondamenta. Le elezioni del 1924 però cambiarono drasticamente la situazione.

LEGGE ACERBO ED ELEZIONI POLITICHE DEL 1924
Per superare il parlamentarismo liberale, nel 1923, Mussolini spinse per una riforma profonda della legge elettorale in senso fortemente maggioritaria: la lista che avesse superato il 25% dei voti avrebbe conquistato 2/3 dei seggi.
Le elezioni politiche del 1924 divennero per Mussolini una prova decisiva. La campagna elettorale fu ricca di episodi violenti e di aggressioni. Il Pnf si presentò inserito in un listone che comprendeva liberalconservatori, clericali moderati e nazionalisti. Le opposizioni non furono in grado di coalizzarsi per respingere l’offensiva fascista e subirono una cocente sconfitta: il listone ottenne una larga maggioranza di 403 deputati su 535. La chiave della vittoria fascista fu certamente l’uso sistematico della violenza e il modo in cui Mussolini veniva visto dalla borghesia e dai ceti medi (difensore dell’ordine sociale e della proprietà privata).

IL DELITTO MATTEOTTI E LA “SECESSIONE DELL’AVENTINO”
Le elezioni del 1924 determinarono un nuovo clima politico. Il deputato socialista moderato Giacomo Matteotti denunciò i brogli elettorali e le violenze grazie alle quali i fascisti avevano prevalso. Fu un gesto coraggioso perché accusando i fascisti di aver vinto le elezioni grazie a frodi e violenza, negava la legittimità democratica della loro vittoria. Pochi giorni dopo Matteotti fu rapito e dopo due mesi, fu ritrovato morto in un parco di Roma. Le indagini non individuarono i mandanti dell’assassinio, ma la responsabilità del delitto era facilmente prevedibile e l’arresto degli assassini non fece che confermare la matrice fascista dell’attentato.
In questo momento Mussolini si trovò in difficoltà. In questa situazione, l’opposizione antifascista decise di abbandonare l’aula parlamentare. La “Secessione dell’Aventino” intendeva chiamare il governo alle proprie responsabilità. Fino a quando non si fosse ristabilito l’ordine e le condizioni di una regolare attività parlamentare, nessun deputato dell’opposizione sarebbe tornato al proprio ruolo in parlamento. Si trattò di una scelta nobile ma politicamente debole. Mussolini, infatti, recuperò forza e, senza nessuna opposizione, poté avviare il paese verso la dittatura.
All’inizio del 1925 si assunse addirittura la “responsabilità politica, morale e storica di tutto quanto è avvenuto” riguardo il cado di Matteotti. E concluse dicendo: “se il fascismo è un’associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere”. Fu una prova di forza indiscutibile, a fronte di un’opposizione divisa e impotente.

LE “LEGGI FASCISTISSIME”
La legge Acerbo aveva dato ai fascisti una larghissima maggioranza parlamentare, non ammettendo l’opposizione politica. Grazie a questa maggioranza, nel 1926 Mussolini varò le cosiddette “leggi fascistissime” che prevedevano:

  • Lo scioglimento dei partiti di opposizione politica;
  • La soppressione della libertà sindacale e la messa fuori legge dei sindacati socialisti e cattolici. L’unico sindacato legale era quello fascista;
  • La soppressione della libertà di stampa, con l’imposizione nei giornali di giornalisti fascisti;
  • L’istituzione del Tribunale speciale per la difesa dello stato con il compito di condannare gli antifascisti;
  • L’allargamento dei poteri del presidente del Consiglio e del governo e la sottomissione del Parlamento alla loro volontà.

LA SOVRAPPOSIZIONE FRA STATO E PARTITO
Il fascismo era riuscito a conquistare il potere senza rivoluzione ma rimanendo dentro le coordinate istituzionali dello Statuto Albertino. Il Parlamento, il governo, l’esercito, ma anche la Chiesa, non erano scomparsi e non furono profondamente riformati, ma vissero al fianco delle nuove istituzioni fondate dal regime. Le istituzioni del passato e quelle nuove create dal partito si sovrapposero sempre più generando una rete istituzionale poco lineare ma sempre funzionale per gli interessi del Duce.
Due delle nuove istituzioni fasciste erano il gran consiglio del fascismo e la milizia volontaria per la sicurezza nazionale.
Il Gran consiglio del fascismo era un organismo parallelo al governo ufficiale, formato esclusivamente da fascisti, che finì per screditare il governo e nel 1928 divenne il vertice dell’organizzazione dello stato.
La Milizia volontaria per la sicurezza nazionale era un vero esercito fascista che legalizzò la violenza squadrista. Essa divenne una milizia di partita a disposizione di Mussolini e tutelata dallo stato.

STATO E CHIESA: I PATTI LATERANENSI
Una delle altre grandi istituzioni con la quale Mussolini doveva convivere era la Chiesa. Egli, infatti non poteva permettersi che le gerarchie vaticane mostrassero dubbi sulla legittimità del fascismo perché la Chiesa aveva enorme influenza sull’opinione pubblica.
L’11 febbraio del 1929 Mussolini e il cardinale Pietro Gasparri firmarono i Patti Lateranensi, un accordo di ampio respiro che disciplinava i rapporti tra stato italiano e Santa sede ponendo fine al conflitto apertosi nel 1870 con la breccia di Porta Pia.
I Patti Lateranensi consistevano di tre documenti: un trattato, una convenzione e un concordato.
Il trattato prevedeva il riconoscimento dell’indipendenza e della sovranità della Chiesa come “Stato nello Stato” e fondava lo Stato della Città del Vaticano.
La convenzione finanziaria prevedeva un risarcimento di 750 milioni di lire che l’Italia doveva pagare alla Santa sede.
Il concordato veniva a definire alcune questioni come le relazioni civili e religiose tra Italia e Chiesa (libera Chiesa in libero Stato), l’imposizione del cattolicesimo come religione di Stato e l’insegnamento della religione cattolica all’interno delle scuole. Inoltre venne prevista l’esenzione dei Sacerdoti dal servizio militare e la validità degli effetti civili del matrimonio religioso.

Pubblicato da bmliterature

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